Fu il nobile Pietro Caballerio
a volere, col suo testamento del 10 aprile 1423,
la costruzione della chiesa di San Giacomo
di Compostella. Pur non essendoci alcuna
indicazione a motivare la voluta dedicazione,
è plausibile che il voto abbia inteso risarcire
un mancato pellegrinaggio a Santiago di Compostella.
La
chiesa, nelle intenzioni del testatore, doveva
sorgere in località denominata Santa
Sofia nei pressi dell’Osanna.
L’ubicazione è da ritenersi coincidente
con l’area un tempo contrassegnata da orti
delimitati da un piano roccioso e oggi occupata
dall’isolato di case che da piazza della
Libertà si estende verso il lato sinistro
di corso Vittorio Emanuele. Il testatore ordinava
che la chiesa, immaginata con un coro con volta
a crociera, lamiam ad crucem e navata
con volta ogivale, lamiam francescam,
fosse più grande di quella di Santa
Elisabetta in via Cibaria, traversa dell’attuale
via Roma. Il piazzale antistante la chiesa doveva
essere rivestito da chianche, plancatum,
e la porta preceduta da tre gradini d’accesso.
La collocazione in una zona suburbana esigeva
l’approntamento di una serie d’accorgimenti
che rendessero più agevole e comodo l’accesso
alla chiesa; la sua collocazione nelle vicinanze
di una zona rocciosa è confermata dalla
richiesta di costruire la sacrestia, sempre voltata,
accanto alle sporgenze calcaree che erano vicine:
a lateribus montium ibi astantium.
Pietro Caballerio lasciò dettagliate indicazioni
per la decorazione del sacro edificio: l’aula
doveva arricchirsi d’affreschi e riflettere
le novità stilistiche esibite dal ciclo
di dipinti della chiesa di Santa Caterina
d’Alessandria in San Pietro di Galatina.
Questa segnalazione documenta come la conoscenza
dei dipinti di Galatina, realizzati a partire
dal 1409 e terminati nel 1439, fosse già
nota, nel 1423, in questa parte della regione.
Il nobile Caballerio precisava, ancora, che era
possibile, a determinate condizioni, un’ubicazione
alternativa a quella indicata.
Ricchi e preziosi i paramenti liturgici in dotazione
della chiesa: un calice d’argento, vesti
sacerdotali, delle quali una solenne, i messali,
i libri necessari per le funzioni liturgiche e
un’icona, fatta alla maniera veneziana con
rappresentazione di molti santi, per il prezzo
di 40 ducati. Con questa espressione bisogna intendere
la realizzazione di un polittico a scomparti,
con immagini di santi e probabilmente al centro
la Madonna con Bambino. Dipinti simili,
su tavola, erano abbastanza frequenti nella nostra
regione; Pietro Caballerio poteva averli ammirati
tanto a Brindisi, città di cui la sua famiglia
era originaria, quanto a Monopoli dove nel Santo
Stefano, era un polittico di Lorenzo Veneziano
(notizie 1356-1372) della metà del XIV
secolo. Per la costruzione della chiesa, Pietro
Caballerio lasciava un cospicuo patrimonio comprendente:
oliveti a Citro e a Locopagliaro,
numerosi appezzamenti di terreno a Pezza della
Spina, a Calaprico, con alberi di
mandorli e da frutta, giardini alla Rosara,
vigne, palmenti e trappeti nella contrada Citro,
vacche e buoi, denaro in contanti e crediti, rendite
da grano, olio, vino e orzo alla contrada Cuti;
giardini, cisterne e una chiusura. I
proventi di questi beni dovevano servire a dotare
la cappella dei quattro sacerdoti, necessari per
attendere agli uffici liturgici, da scegliere
tra i discendenti in linea maschile dello stesso
Caballerio.
Nel corso del XVI secolo, soltanto un cappellano
tuttavia godeva, da più di vent’anni,
dei notevoli benefici derivanti dalle rendite
degli immobili lasciati dal Caballerio, essendo
stata elusa la nomina degli altri tre stabilita
nel testamento.
Il vescovo Gian Carlo Bovio nel 1558 pose fine
a questo abuso pretendendo l’esibizione
del testamento per verificare le disposizioni
testamentarie del Caballerio. L’abate Donato
Antonio Scalona, cappellano della chiesa di San
Giacomo in quel periodo, addusse la scusa che
il documento era così antico che sarebbe
stato impossibile trovarlo. Questo temporeggiamento
rese il vescovo più rigoroso minacciando
la scomunica, la denunzia all’arcivescovo
di Brindisi e, in ultimo, alla Sede Apostolica.
La famiglia Scalona, per contro, invocava la protezione
del signore della città di Ostuni, il marchese
di Trevico Ferdinando Loffredo. La scomunica non
tardò ad arrivare e finalmente l’abate
Scalona presentò il documento, ancor oggi
custodito nell’Archivio Capitolare di Ostuni,
il 5 aprile del 1559. La mancata nomina degli
altri cappellani fu motivata da fattori contingenti:
la famiglia Scalona era carica di debiti e aveva
“molti figlioli mascoli e femmine maritati
e da maritare”. Accettava le disposizioni
del vescovo che provvedeva alla nomina d’altri
tre cappellani che avrebbero celebrato a turno
ogni giorno la Santa Messa, nei giorni festivi
una Messa cantata con i secondi vespri, nelle
solennità di Nostro Signore, della Beata
Vergine, di San Pietro, San Giovanni Battista,
San Giacomo, la Messa cantata, il mattutino, le
ore canoniche.
Le disposizioni di Pietro Caballerio non furono
al tutto eseguite: la chiesa sorse, infatti, nella
Terra, nelle vicinanze della cinta muraria
angioina, nel cortile dell’ospizio in
vicinio Pantani sull’odierna via Bixio
Continelli già denominata San Martino,
Vitale, Petrolla, Continelli, Battisti, San Giacomo.
La chiesa, costruita con dimensioni inferiori
rispetto a quelle auspicate dal nobile ostunese,
probabilmente non fu mai affrescata; non ha una
facciata vera e propria, giacché l’unico
ingresso si apre al di sotto di un arco di transito.
Un’elegante cornice decorata a rilievo segnala
la presenza di un luogo di culto, impostato su
di un alto zoccolo. Altro elemento indicativo
dell’edificio ecclesiastico è il
campanile ad una sola voce. Maggiormente caratterizzato
appare il lato posteriore, visibile lungo viale
Oronzo Quaranta. Sicuramente la chiesa, pur di
piccole dimensioni, era fornita di un’abside
semicircolare, introdotta dalle due colonne con
capitelli figurati emersi durante i lavori di
restauro del 1994-1996, ancora oggi rilevabili
lungo le pareti orientali della cinta muraria,
incastonate alla base di un arco di trionfo. La
facciata posteriore della chiesa doveva sicuramente
sorgere a una certa distanza dai camminamenti
che contrassegnavano la fortificazione della città.
Questo lo si può osservare in tutte le
antiche vedute: da quella del 1584 conservata
a Roma alla Biblioteca Angelica, a quella
disegnata nel Poliorama Pittoresco del
1838 pubblicato a Napoli, dove la chiesa sembra
addirittura cupolata. Manca, invece, nella riproduzione
della città dell’abate Giovan Battista
Pacichelli che visitò Ostuni tra il 1684
e il 1687.
Elementi di recupero inseriti nella parete che
chiuse l’area absidale, sono due monofore,
quella in alto con profilo a tutto sesto e quella
in basso a sesto acuto. Non sappiamo la loro posizione
originaria; una sicuramente era posta lungo la
curvatura dell’abside, l’altra forse
su di una parete laterale, anticamente libera.
Sul lato sinistro della chiesa sono riconoscibili
delle monofore che dovevano illuminare la torre
campanaria. I danni provocati dal terremoto del
20 febbraio del 1743 alle mura aragonesi, resero
necessaria una ridefinizione del percorso fortificato.
In quella occasione, pertanto, è probabile
che l’abside sia stata eliminata e che la
chiesa sia stata modificata nella parte interna
con l’inserimento delle colonne nelle mura
perimetrali.
Al
di sopra del portale si imposta un elegante archivolto
decorato da due fasce: quella esterna, a motivi
fogliacei, è sostenuta da due telamoni:
a sinistra un cane accucciato e a destra un uomo
dalla lunga barba, inginocchiato. La sezione interna
scandisce, a intervalli regolari, riquadri fogliacei
a motivi zoomorfi.
Una piccola architrave posta nella parte bassa
chiude la lunetta, suggellata centralmente da
un piccolo medaglione, il clipèo, raffrontabile
a quello in essere sul portale del duomo di Matera,
con una testina centrale. In corrispondenza degli
stipiti interni sono due stemmi contrapposti raffiguranti
l’emblema della famiglia Caballerio.
La porta della chiesa, come è scritto nel
Vangelo, rappresenta Cristo: “Io sono la
porta, dice il Signore”.
Rappresentando il limite tra la realtà
quotidiana e il luogo per eccellenza per la salvezza,
la decorazione del portale ha rappresentato nel
Medioevo, attraverso figure fantastiche ed esseri
mostruosi una sorta di prefigurazione del destino
riservato all’uomo se non si fosse pentito
dei peccati e non avesse ritrovato nella chiesa
la via della fede. Dietro queste immagini bizzarre,
si celano diversi significati, alcuni dei quali
difficili da interpretarsi; si tratta di un mondo
misterioso e affascinante popolato da animali
che incarnano il vizio o la virtù, il magico
e il meraviglioso, evidenziando nella molteplicità
delle apparenze la presenza di forze superiori
tese al bene e al male.
Il cane accucciato, ad esempio, dall’espressione
ringhiosa e dalla testa rigirata di 180 gradi,
sembra sottoposto a uno sforzo enorme, bloccato
nella pietra da una punizione che l’obbliga
a sostenere l’archivolto. Stessa funzione
sembra assegnata all’uomo ritratto sul lato
opposto, caratterizzato da una lunga barba attorcigliata
e terminante a punta, che regge con grande fatica,
espressa dalla tensione delle braccia muscolose,
tutto il peso del piedritto dell’arco.
Partendo da sinistra si possono scorgere: un cane
con la testa rigirata e il corpo trafitto da uno
stelo fogliaceo; due uccelli che si affrontano;
un’aquila con le ali spiegate; un animale,
forse una lepre o un coniglio, con un piumaggio
che si sviluppa dalla testa; due esseri anguiformi,
con le code intrecciate e un altro uccello rappresentato
nell’atto di beccare.
La prevalenza dei volatili, simboli di Dio e alludenti
all’anima, potrebbero indicare l’elevazione
spirituale alla quale il fedele deve tendere entrando
in chiesa.
Nel piano retrostante le formelle del lato destro
si possono intravedere tracce dell’antica
cromia rossa che un tempo faceva risaltare vivacemente
il fregio riccamente decorato.
Dal punto di vista stilistico i rilievi, caratterizzati
da un taglio netto e profondo che incide e rimargina
i profili delle foglie o espande i carnosi petali
delle infiorescenze, sono ancora pregni della
tradizione scultorea pugliese di matrice gotica,
rilevabile nei capitelli di Santa Caterina d’Alessandria
a Galatina. Non ancora sottoposta ad uno studio
attento che ne riveli il complesso significato,
la lunetta è stata messa in rapporto con
alcune sculture della Terra Santa da storici dell’arte
dell’università di Bari.
La chiesa è formata da
un’aula voltata a botte con arco di trionfo
in pietra a vista, antico limite per lo sviluppo
della zona presbiteriale. Al di sopra dell’altare
maggiore, alla sua destra, in prossimità
di una piccola finestra e alla base di un arco,
prima del restauro del 1996, si intravedeva una
parte della decorazione del capitello di una colonna.
Dopo il restauro e l’allungamento delle
due finestre, presenti ai lati dell’altare,
sono state portate alla luce nella loro interezza
due bellissime colonne di carparo. Si ipotizza
che fossero terminali di un pergolato da giardino,
inglobate poi nella chiesa al momento della costruzione.
I capitelli, posti a coronamento delle robuste
e tozze colonne, esibiscono motivi fogliacei flessuosi
e ondeggianti, dallo sviluppo più morbido
rispetto a quelli presenti sul portale. Interessantissime, soprattutto per l’iconografia del costume del XV secolo, sono le due testine aggettanti agli angoli dei capitelli, contraddistinte da copricapo che potrebbero rimandare alle professioni esercitate: quella di sinistra è coperta con una sorta di cuffia, trattandosi probabilmente di un appartenente alla sfera ecclesiastica; la figura di destra, con un berretto ricadente sul lato destro del volto, potrebbe rimandare a un artigiano o un mercante.
Questo è quanto rimane dell’antica
decorazione della chiesa, dal momento che l’edificio,
sia per la ristrutturazione richiesta dal rifacimento
della cinta muraria nella metà del 1700,
sia perché alla fine del 1800 risultava
gravemente danneggiato nella copertura, ha subito
radicali modifiche rispetto al suo aspetto primitivo.
Nella visita compiuta dal vescovo Tommaso Valeri
nel 1911, si specifica che dal 1870 circa la chiesa
confinava con un giardino e con due locali usati
come stalle dalle famiglie Zaccaria e Moscani.
Dal momento che l’edificio risultava danneggiato,
la famiglia Zaccaria lo usava in modi impropri
e fra questi come stenditoio. Il rettore don Fabio
Tolla che era stato nominato dal vescovo Palmieri
nel 1904, aveva provveduto a proprie spese a restaurare
la chiesa, ma segnalava al nuovo vescovo la presenza
di preoccupanti lesioni che procuravano umidità
all’interno.
Durante questi lavori si effettuarono scavi in
corrispondenza dell’altare trovando una
cassettina con la testa di un bambino, segno che
la chiesa era servita anche come luogo di sepoltura.
I lavori compiuti si rivelano nel 1920 insufficienti;
un cedimento del pavimento determina un’inclinazione
in avanti dell’altare e il distacco della
parete di fondo. A porre rimedio è una
colletta tra i fedeli in uno con la generosità
di don Fabio Tolla.
Per quanto riguarda l’arredo interno, il
polittico alla maniera veneziana voluto dal Caballerio
e probabilmente realizzato, non è in sito.
Nella visita pastorale del 1623 è ricordata,
infatti, un’icona antica della Madonna,
su tavola, con san Giacomo e altri tre santi.
Questo polittico era ancora esistente nel 1907,
quando il vescovo Luigi Morando visita la chiesa;
il sacerdote don Fabio Tolla lo aveva tuttavia
sostituito con le statue dei Santi Cosimo
e Damiano realizzate dal prolifico cartapestaio
leccese Raffaele Caretta (1871-1950). Per questo
motivo ancora oggi la chiesa è indicata
popolarmente dagli ostunesi come chiesa di San
Cosimo.
In base alla celebrazione delle messe a san Pietro
e a san Giovanni Battista e alla intitolazione
della chiesa anche a san Filippo, si può
supporre che i santi rappresentati nella tavola
fossero proprio questi ora nominati. Oggi sull’altare
realizzato nella metà del 1700 da Giuseppe
Morgese, si ammira la tela realizzata nel 1724
per volontà dell’allora sindaco di
Ostuni don Giovanni Ayroldi. Vi è raffigurata
Sant’Irene proclamata nel 1724
patrona di Ostuni, invocata per proteggere la
città dai fulmini durante i temporali,
perniciosi per le coltivazioni. Il dipinto, anche
se molto rovinato, è interessante, poiché
contiene una veduta di Ostuni con la cinta muraria,
la Cattedrale e la marina con il castello di Villanova.
Sul lato sinistro si eleva l’altare in pietra
voluto da Angelo e Maria Viola Lotesoriere nel
primo decennio del 1900, dedicato a San Paolo.
Questi devoti dotarono l’altare con una
statuetta e un quadro del santo; negli atti di
santa visita si annota che, dopo averlo visitato
una volta, “non si sono più visti”.
Testo di Enza
Aurisicchio
BIBLIOGRAFIA
Fonti
Archivio Storico Diocesano di Ostuni:
Atti del beneficio di San Giacomo di Compostella,
XVIII sec.
Atti di Santa Visita di mons.Luigi Morando, 28
giugno 1907
Atti di Santa Visita di mons. Tommaso Valeri,
10 marzo 1911
Atti di Santa Visita di mons. Tommaso Valeri,
15 giugno 1920
Atti di Santa Visita di mons. Tommaso Valeri,
20 giugno 1934
Letteratura
CALÒ MARIANI M., Il cammino di Gerusalemme,
Adda M. editore, 2002, Bari.
GRECO L. PAIANO E., PELUSO V., Arte e storia
nella Città Bianca, Galatina: Congedo
editore, 2000.
PEPE L., Memorie storico-diplomatiche della
chiesa vescovile di Ostuni, Valle di Pompei
1891.
Periodico “Lo scudo”, Ostuni, numeri
vari
PETRUCCI A., Cattedrali di Puglia, Roma:
Carlo Bestetti editore, 1976.
SAPONARO A., Ostuni per il turista, Fasano:Grafischena
editore, 1981.
SOZZI A., Ostuni antica e moderna, Fasano:
Grafischena editore, 1979.
SOZZI A., Ostuni nella storia, Fasano:
Grafischena editore, 1986.
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Foto:
1 - San Giacomo in Compostella. Particolare dell'abside
prima del restauro.
2 - San Giacomo in Compostella. Particolare dell'abside
dopo il restauro.
3 - Il portale.
4 - Interno restaurato.
5 - Particolare del Capitello dopo il restauro.
6 - San Giacomo di Compostella. Il mercante (foto
di Giovanni Lacorte)
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