.:. CHIESE

VISITAZIONE E S. GIOVANNI BATTISTA NELLA BASILICA CATTEDRALE
Brindisi
CORO DEI CANONICI

Si propone l’inedito studio di Michele Paone (1938-2001) su L'intervento di Giuseppe Cino nel coro della Cattedrale di Brindisi, redatto il 1994 compiendosi i saecularia quarta della magnifica struttura voluta dall’arcivescovo Andrea de Ajardes ((1591-5). Giuseppe Cino (1635-1722) venne richiesto di curare l'aggiornamento funzionale del coro, per salvaguardare, pur in presenza d'innovazioni, il rapporto che il coro stesso legava all'antistante altare maggiore. Paone colloca i lavori diretti dall’architetto leccese in una data compresa nel primo decennio del Settecento durante l’episcopato di Barnaba de Castro (1700-7).

L'INTERVENTO DI GIUSEPPE CINO NEL CORO
DELLA CATTEDRALE DI BRINDISI

“Fu singolare anco per l'altre virtù christiane, che in lui risplendevano, e particolarmente era ammirabile nella vigilanza grande che teneva della sua Chiesa. Fece il nobil Choro della Chiesa Catedrale, che hoggi si vede, il quale è disposto in trè ordini di sedili per haver ognuno de' Choristi il suo luogo proportionato. Egli è d'Anoce vagamente lavorato d'intagli, con fogliami, e figure diverse, e nella Sedia Maggiore del Choro, ch'è de'Prelati, vi fè intagliare il glorioso Apostolo Sant'Andrea per la divotione grande, ch'à quello professava, mentre ne haveva il nome".
Questa ed altre lodi si leggono nel brano epicedico dell'arcivescovo Andrea Ayardes che il contemporaneo Giovanni Maria Moricino inserì nella sua Antichità di Brindisi, dal carmelitano Andrea Della Monaca pubblicata sub nomine suo ed impressa in Lecce il 1674 col titolo Memoria historica dell’antichissima, e fedelissima città di Brindisi.
La commossa partecipazione che ispira il passo relativo al profilo dell'arcivescovo composto dal Moricino è, a mio credere, un ulteriore elemento dell'infondatezza del sospetto, che anche su di lui gravò e che gli costò l'avventura di venire imprigionato nel castello di terra, di avere avuto parte nell'avvelenamento del prelato, come si legge nella Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529-1787) e nell'Articolo del Guerrieri.
Pure da Guerrieri si conosce che il coro voluto dall'Ayardes il 1594 fu stabilito nel nuovo vano che, destinato ad accoglierne gli stalli, il suo predecessore Bernardino de Figueroa aveva fatto costruire nella tribuna del presbiterio retrostante il capo altare.
Fortunosamente ancora superstite, il coro del De Ayardi, che quest'anno compie, dunque, i saecularia quarta, esibisce sulla sua fronte e sullo schienale della cattedra rispettivamente lo stemma, due volte ripetuto, del presule e l'altorilievo dell'apostolo di cui l'arcivescovo portava il nome, segni che confermano quanto Moricino e Guerrieri avevano riportato nei lavori loro.
Nel programma di riforma sei costumi del clero perseguito dal presule spagnuolo, la costruzione del coro, senza trascurare la valenza estetica dell'opera che concludeva la prospettiva della tribuna, rispondeva prevalentemente a fini di osservanza della direttiva tridentina per il più congruo svolgimento delle funzioni liturgiche di un visibile ordine esterno che agli astanti forniva la visione diretta e centrale della preminenza del capo altare dietro il quale la scenografica macchina corale accoglieva il senato della Chiesa locale, il metropolita e, attorno a lui, il collegio capitolare. Costituiva, inoltre, il coro il sito privilegiato della preghiera collettiva e dell'unità della lode, segno ad un tempo di comunità, ma anche luogo di raccoglimento personale, ché non ad altro fine mirava l'invito che l'epigrafe trasmetteva: Indignum est corpore astare Deo et mente per inutiles cogitationes evagari.
L'opera che dedica al coro uno studio informato ed esauriente e che a venticinque anni dalla sua pubblicazione va considerato un testo di attuale ed insostituibile informazione e consultazione, è rappresentata dalla monografia dovuta a quel sagace ed alacre specialista non solo di cose brindisine che è il nostro Rosario Jurlaro, il quale il 1969 appunto licenziò alle stampe, fin da quel tempo nitide ed eleganti, di Schena, il volume che, intitolato appunto Il coro della Cattedrale di Brindisi, rivela nel sottotitolo La scultura figurativa in legno dei secoli XVI e XVII in Puglia come il manufatto brindisino venga studiato nel più vasto quadro della scultura lignea della regione dal Rinascimento al Seicento.
In quel libro, Jurlaro racconta, dunque, non solo la storia del coro del duomo di Brindisi, dalla costruzione ad opera di un artefice fin qui rimasto ignoto e fino alla sistemazione nel presbiterio della cattedrale quale dopo il terremoto del 1743 all'arcivescovo Antonino Sersale venne dato di ricostruire, ma, indagando con scrupolo ed acume tra i lavori cronologicamente precedenti e successivi al nastro coro, lo inserì nel luogo che gli competeva anche per la qualità di formale esecuzione tecnica e funzionalità di usi.
L'indagine di Jurlaro muove naturalmente da una perspicua lettura del monumento che gli consentì d'investigare come, nel corso dei secoli, il coro avesse subito modifiche ed interventi conseguiti, per il migliore suo utilizzo, alla vicenda costruttiva del capo altare con il quale il complesso degli stalli doveva necessariamente mantenere un continuo e privilegiato rapporto di compresenze e, dunque, di costante aggiornamento alle modifiche dei riti liturgici.
Accadde che nel corso di quello studio investigativo, Jurlaro con il rigore selettivo della sua osservazione riuscì ad individuare i fatti di rimozione e le novità d'integrazione che all'opera erano state apportate e al nostro amico riuscì anche di scoprire sui pannelli terminali dell'ordine inferire del coro, l'uno all'altra antistanti, due targhette ovali che, inserite entra accartocciati castoni a nastro, esibivano l'una le sigle G. C. L. ed un albero sradicati ed accoglieva l'altra un compasso aperto, strumento che, quando è esibito nei ritratti, consente d'individuare il personaggio come architetto.
Quella scoperta fu per Jurlaro per il primo un'autentica rivelazione che nessun'altra fonte supportava. Sciolte agevolmente le sigle in quelle di Giuseppe Cino, il leccese architetto del palazzo del seminario e, tra gli altri lavori, ancora in patria delle chiese di S. Chiara e del Carmine, s'impose la lettura degli intagli che potevano risalire all'intervento del maestro leccese e che Jurlaro individuò in certi pannelli corali che esibivano stilizzati viluppi di racemi di filodendro, il cui lieve profilo appena emergente dal piano trattato a buccia d'arancia, lo indusse ad ipotizzare che al Cino si poteva assegnare anche l'esecuzione di certe xilografie tipografiche utilizzate nella stamperia di Pietro Micheli le quali con i motivi intagliati nel coro avevano un'evidente concordanza di disegno e di gusto. All'artista leccese il nostro autore rivendicò le figure dei principi degli apostoli applicate sui dossali degli stalli del vicario episcopale e del canonico forestiero e propose come epoca dell'intervento di Cino l'arco compreso tra il 1659 e il 1671, allorquando, Francesco d'Estrada arcivescovo, la ricostruzione del capo altare avrebbe imposto un'ulteriore modifica alle strutture dell'organismo corale.
Fin qui ho cercato di sintetizzare, parafrasandone i passi, il discorso relativo alla ricerca dal nostro amico dedicata alla parte avuta dal Cino nella sistemazione dell'apparato corale. Osservo ora che, a mio parere - parere opinabile e perciò suscettibile di errore - l'impegno che Cino esplicò nell'opera del coro non dovette essere quello di intagliatore, ché certo non sono opera di scultura i rilievi dei SS. Pietro e Paolo e gli attorti girali fitomorfi a lui come artefice assegnati, quanto, piuttosto, del tecnico chiamato ad attendere ad una nuova impaginazione dell'organismo corale, correlandola all'antistante macchina del capo altare.
Allo stato delle attuali conoscenze, non ci è dato di confermare la notizia riferita dal Moricino, secondo il quale all'origine tre, e non già gli attuali due, erano gli ordini del coro, né, se è esatta quell'informazione, sappiamo a quale momento l'opera sarebbe stata decurtata di un ordine di sedili, operazione che sarà stata determinata anche dalla riduzione numerica dei capitolari. Del resto, se al ruolo d'intagliatore assegnato al Cino si sostituisce quello di un maestro riconosciuto capace di operare al meglio una modifica strutturale di un antico e pregevole monumento ligneo, serbandone l'aspetto e la rilevanza, il simbolo del compasso, inadeguato a definire il limitato impegno di un intagliatore, esprime efficacemente la valenza di un intervento che necessariamente richiese speciali attenzioni, soluzioni di problemi e misurazione di spazi e postulò la redazione di un progetto, in difetto del quale ben modesta ed episodica ed improvvisata sarebbe stata la presenza di un intagliatore, più allenato alla sgorbia che al compasso, per non dire che non è dato di riportare alla resa tecnica dello scalpello del Cino, squisito evocatore di involucri plastici di densa, carnosa e spumosa esuberanza, il basso profilo degli intagli che a lui sono stati assegnati.
L’opera dell'artista leccese sarebbe stata, dunque, quella di un intendente e pratico di architettura al quale venivano riconosciuti i talenti di uno specialista che aveva dalla sua esperienze e cognizioni valide ad integrare, a rimuovere e a sostituire spazi a quote di un'opera che, come il coro brindisino, doveva essere aggiornato per mantenere nell'area del vano presbiteriale la funzione prospettica di estremo fondale, la cui massa scenografica d'intagli riceveva speciale suggestione coreografica dalle figure dei canonici che, abbigliate in sfarzosi paludamenti, inchinavano al presule riguardato come la suprema autorità della Chiesa locale ed il primo celebrante dell'azione liturgica offerta dal nuovo capo altare.
Se, dunque, si ipotizza che Cino venne richiesto di curare l'aggiornamento funzionale del coro, trova un compiuto senso concreto il ricordato emblema del compasso aperto che esprimerebbe la dimensione e lo spessore dell'intervento richiesto al maestro leccese per salvaguardare, pur in presenza d'innovazioni, il rapporto che il coro legava all'antistante altare maggiore.
Della ricostruzione di questo riferita alla commissione dell'arcivescovo de Estrada le fonti citate da Jurlaro nulla riferiscono in proposito, né si conosce una qualche immagine del capo altare che consenta di rilevarne l'epoca di esecuzione.
In presenza di siffatti elementi, non è di ostacolo proporre come ipotesi più attendibile per la cronologia dei lavori diretti dal Cino una data compresa nel primo decennio del Settecento, allorquando il capo altare ricevette dalla committenza dell'arcivescovo Barnaba de Castro il superbo ornamento argenteo rappresentato dal paliotto e il maestro leccese con le autonome sue imprese di fabbriche, si era imposto all'attenzione degli ambienti ecclesiastici e civili della provincia come il maestro alacre e disponibile ad assumersi, anche come titolare di una bottega artigiana, alla quale dovette appartenere l'intagliatore dei tralci e delle figure dei principi degli apostoli, derivate con semplificazioni dalle statue di Galatina e di Martignano dovute al Cino - il carico di imprese di fabbrica come di ornamentazione plastica.
Da un documentato lavoro di computo metrico delle quote realizzate nel forte a mare di Brindisi eseguito dal nostro il 1701 si ricava la fiducia che l'autorità di governo riponeva nell'artista che, com'è noto, in Mesagne attendeva, il primo decennio del Settecento, alla ricostruzione di pianta della chiesa dei predicatori, opera che non sfigura nel catalogo dei suoi lavori anche di scultura, al gusto dei quali corrispondono le macchine di alcuni altari in Oria e in Francavilla Fontana e la delicata scultura condotta come una trina del battistero della chiesa maggiore di Trepuzzi, lavori che per eleganza di disegno, finitezza d’intaglio e grazia decorativa meritano nel quadro della scultura barocca salentina quell'attenta considerazione che valga a scongiurare i rischi e i pericoli che l’inedito sovente facilita.

Michele Paone

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