L'INTERVENTO DI GIUSEPPE
CINO NEL CORO
DELLA CATTEDRALE DI BRINDISI
“Fu singolare anco per
l'altre virtù christiane, che in lui risplendevano,
e particolarmente era ammirabile nella vigilanza
grande che teneva della sua Chiesa. Fece il nobil
Choro della Chiesa Catedrale, che hoggi si vede,
il quale è disposto in trè ordini
di sedili per haver ognuno de' Choristi il suo
luogo proportionato. Egli è d'Anoce vagamente
lavorato d'intagli, con fogliami, e figure diverse,
e nella Sedia Maggiore del Choro, ch'è
de'Prelati, vi fè intagliare il glorioso
Apostolo Sant'Andrea per la divotione grande,
ch'à quello professava, mentre ne haveva
il nome".
Questa ed altre lodi si leggono nel brano epicedico
dell'arcivescovo Andrea Ayardes che il contemporaneo
Giovanni Maria Moricino inserì nella sua
Antichità di Brindisi, dal carmelitano
Andrea Della Monaca pubblicata sub nomine suo
ed impressa in Lecce il 1674 col titolo Memoria
historica dell’antichissima, e fedelissima
città di Brindisi.
La commossa partecipazione che ispira il passo
relativo al profilo dell'arcivescovo composto
dal Moricino è, a mio credere, un ulteriore
elemento dell'infondatezza del sospetto, che anche
su di lui gravò e che gli costò
l'avventura di venire imprigionato nel castello
di terra, di avere avuto parte nell'avvelenamento
del prelato, come si legge nella Cronaca dei
sindaci di Brindisi (1529-1787) e nell'Articolo
del Guerrieri.
Pure da Guerrieri si conosce che il coro voluto
dall'Ayardes il 1594 fu stabilito nel nuovo vano
che, destinato ad accoglierne gli stalli, il suo
predecessore Bernardino de Figueroa aveva fatto
costruire nella tribuna del presbiterio retrostante
il capo altare.
Fortunosamente ancora superstite, il coro del
De Ayardi, che quest'anno compie, dunque, i saecularia
quarta, esibisce sulla sua fronte e sullo
schienale della cattedra rispettivamente lo stemma,
due volte ripetuto, del presule e l'altorilievo
dell'apostolo di cui l'arcivescovo portava il
nome, segni che confermano quanto Moricino e Guerrieri
avevano riportato nei lavori loro.
Nel programma di riforma sei costumi del clero
perseguito dal presule spagnuolo, la costruzione
del coro, senza trascurare la valenza estetica
dell'opera che concludeva la prospettiva della
tribuna, rispondeva prevalentemente a fini di
osservanza della direttiva tridentina per il più
congruo svolgimento delle funzioni liturgiche
di un visibile ordine esterno che agli astanti
forniva la visione diretta e centrale della preminenza
del capo altare dietro il quale la scenografica
macchina corale accoglieva il senato della Chiesa
locale, il metropolita e, attorno a lui, il collegio
capitolare. Costituiva, inoltre, il coro il sito
privilegiato della preghiera collettiva e dell'unità
della lode, segno ad un tempo di comunità,
ma anche luogo di raccoglimento personale, ché
non ad altro fine mirava l'invito che l'epigrafe
trasmetteva: Indignum est corpore astare Deo
et mente per inutiles cogitationes evagari.
L'opera che dedica al coro uno studio informato
ed esauriente e che a venticinque anni dalla sua
pubblicazione va considerato un testo di attuale
ed insostituibile informazione e consultazione,
è rappresentata dalla monografia dovuta
a quel sagace ed alacre specialista non solo di
cose brindisine che è il nostro Rosario
Jurlaro, il quale il 1969 appunto licenziò
alle stampe, fin da quel tempo nitide ed eleganti,
di Schena, il volume che, intitolato appunto Il
coro della Cattedrale di Brindisi, rivela
nel sottotitolo La scultura figurativa in
legno dei secoli XVI e XVII in Puglia come
il manufatto brindisino venga studiato nel più
vasto quadro della scultura lignea della regione
dal Rinascimento al Seicento.
In quel libro, Jurlaro racconta, dunque, non solo
la storia del coro del duomo di Brindisi, dalla
costruzione ad opera di un artefice fin qui rimasto
ignoto e fino alla sistemazione nel presbiterio
della cattedrale quale dopo il terremoto del 1743
all'arcivescovo Antonino Sersale venne dato di
ricostruire, ma, indagando con scrupolo ed acume
tra i lavori cronologicamente precedenti e successivi
al nastro coro, lo inserì nel luogo che
gli competeva anche per la qualità di formale
esecuzione tecnica e funzionalità di usi.
L'indagine di Jurlaro muove naturalmente da una
perspicua lettura del monumento che gli consentì
d'investigare come, nel corso dei secoli, il coro
avesse subito modifiche ed interventi conseguiti,
per il migliore suo utilizzo, alla vicenda costruttiva
del capo altare con il quale il complesso degli
stalli doveva necessariamente mantenere un continuo
e privilegiato rapporto di compresenze e, dunque,
di costante aggiornamento alle modifiche dei riti
liturgici.
Accadde che nel corso di quello studio investigativo,
Jurlaro con il rigore selettivo della sua osservazione
riuscì ad individuare i fatti di rimozione
e le novità d'integrazione che all'opera
erano state apportate e al nostro amico riuscì
anche di scoprire sui pannelli terminali dell'ordine
inferire del coro, l'uno all'altra antistanti,
due targhette ovali che, inserite entra accartocciati
castoni a nastro, esibivano l'una le sigle G.
C. L. ed un albero sradicati ed accoglieva l'altra
un compasso aperto, strumento che, quando è
esibito nei ritratti, consente d'individuare il
personaggio come architetto.
Quella scoperta fu per Jurlaro per il primo un'autentica
rivelazione che nessun'altra fonte supportava.
Sciolte agevolmente le sigle in quelle di Giuseppe
Cino, il leccese architetto del palazzo del seminario
e, tra gli altri lavori, ancora in patria delle
chiese di S. Chiara e del Carmine, s'impose la
lettura degli intagli che potevano risalire all'intervento
del maestro leccese e che Jurlaro individuò
in certi pannelli corali che esibivano stilizzati
viluppi di racemi di filodendro, il cui lieve
profilo appena emergente dal piano trattato a
buccia d'arancia, lo indusse ad ipotizzare che
al Cino si poteva assegnare anche l'esecuzione
di certe xilografie tipografiche utilizzate nella
stamperia di Pietro Micheli le quali con i motivi
intagliati nel coro avevano un'evidente concordanza
di disegno e di gusto. All'artista leccese il
nostro autore rivendicò le figure dei principi
degli apostoli applicate sui dossali degli stalli
del vicario episcopale e del canonico forestiero
e propose come epoca dell'intervento di Cino l'arco
compreso tra il 1659 e il 1671, allorquando, Francesco
d'Estrada arcivescovo, la ricostruzione del capo
altare avrebbe imposto un'ulteriore modifica alle
strutture dell'organismo corale.
Fin qui ho cercato di sintetizzare, parafrasandone
i passi, il discorso relativo alla ricerca dal
nostro amico dedicata alla parte avuta dal Cino
nella sistemazione dell'apparato corale. Osservo
ora che, a mio parere - parere opinabile e perciò
suscettibile di errore - l'impegno che Cino esplicò
nell'opera del coro non dovette essere quello
di intagliatore, ché certo non sono opera
di scultura i rilievi dei SS. Pietro e Paolo e
gli attorti girali fitomorfi a lui come artefice
assegnati, quanto, piuttosto, del tecnico chiamato
ad attendere ad una nuova impaginazione dell'organismo
corale, correlandola all'antistante macchina del
capo altare.
Allo stato delle attuali conoscenze, non ci è
dato di confermare la notizia riferita dal Moricino,
secondo il quale all'origine tre, e non già
gli attuali due, erano gli ordini del coro, né,
se è esatta quell'informazione, sappiamo
a quale momento l'opera sarebbe stata decurtata
di un ordine di sedili, operazione che sarà
stata determinata anche dalla riduzione numerica
dei capitolari. Del resto, se al ruolo d'intagliatore
assegnato al Cino si sostituisce quello di un
maestro riconosciuto capace di operare al meglio
una modifica strutturale di un antico e pregevole
monumento ligneo, serbandone l'aspetto e la rilevanza,
il simbolo del compasso, inadeguato a definire
il limitato impegno di un intagliatore, esprime
efficacemente la valenza di un intervento che
necessariamente richiese speciali attenzioni,
soluzioni di problemi e misurazione di spazi e
postulò la redazione di un progetto, in
difetto del quale ben modesta ed episodica ed
improvvisata sarebbe stata la presenza di un intagliatore,
più allenato alla sgorbia che al compasso,
per non dire che non è dato di riportare
alla resa tecnica dello scalpello del Cino, squisito
evocatore di involucri plastici di densa, carnosa
e spumosa esuberanza, il basso profilo degli intagli
che a lui sono stati assegnati.
L’opera dell'artista leccese sarebbe stata,
dunque, quella di un intendente e pratico di architettura
al quale venivano riconosciuti i talenti di uno
specialista che aveva dalla sua esperienze e cognizioni
valide ad integrare, a rimuovere e a sostituire
spazi a quote di un'opera che, come il coro brindisino,
doveva essere aggiornato per mantenere nell'area
del vano presbiteriale la funzione prospettica
di estremo fondale, la cui massa scenografica
d'intagli riceveva speciale suggestione coreografica
dalle figure dei canonici che, abbigliate in sfarzosi
paludamenti, inchinavano al presule riguardato
come la suprema autorità della Chiesa locale
ed il primo celebrante dell'azione liturgica offerta
dal nuovo capo altare.
Se, dunque, si ipotizza che Cino venne richiesto
di curare l'aggiornamento funzionale del coro,
trova un compiuto senso concreto il ricordato
emblema del compasso aperto che esprimerebbe la
dimensione e lo spessore dell'intervento richiesto
al maestro leccese per salvaguardare, pur in presenza
d'innovazioni, il rapporto che il coro legava
all'antistante altare maggiore.
Della ricostruzione di questo riferita alla commissione
dell'arcivescovo de Estrada le fonti citate da
Jurlaro nulla riferiscono in proposito, né
si conosce una qualche immagine del capo altare
che consenta di rilevarne l'epoca di esecuzione.
In presenza di siffatti elementi, non è
di ostacolo proporre come ipotesi più attendibile
per la cronologia dei lavori diretti dal Cino
una data compresa nel primo decennio del Settecento,
allorquando il capo altare ricevette dalla committenza
dell'arcivescovo Barnaba de Castro il superbo
ornamento argenteo rappresentato dal paliotto
e il maestro leccese con le autonome sue imprese
di fabbriche, si era imposto all'attenzione degli
ambienti ecclesiastici e civili della provincia
come il maestro alacre e disponibile ad assumersi,
anche come titolare di una bottega artigiana,
alla quale dovette appartenere l'intagliatore
dei tralci e delle figure dei principi degli apostoli,
derivate con semplificazioni dalle statue di Galatina
e di Martignano dovute al Cino - il carico di
imprese di fabbrica come di ornamentazione plastica.
Da un documentato lavoro di computo metrico delle
quote realizzate nel forte a mare di Brindisi
eseguito dal nostro il 1701 si ricava la fiducia
che l'autorità di governo riponeva nell'artista
che, com'è noto, in Mesagne attendeva,
il primo decennio del Settecento, alla ricostruzione
di pianta della chiesa dei predicatori, opera
che non sfigura nel catalogo dei suoi lavori anche
di scultura, al gusto dei quali corrispondono
le macchine di alcuni altari in Oria e in Francavilla
Fontana e la delicata scultura condotta come una
trina del battistero della chiesa maggiore di
Trepuzzi, lavori che per eleganza di disegno,
finitezza d’intaglio e grazia decorativa
meritano nel quadro della scultura barocca salentina
quell'attenta considerazione che valga a scongiurare
i rischi e i pericoli che l’inedito sovente
facilita.
Michele Paone |