La “questione meridionale”,
relegata per alcuni anni in un cono d’ombra
soprattutto a causa della pressante polemica
alimentata dalla Lega, ha riguadagnato il centro
della scena. La crisi economica ha accentuato
le disuguaglianze presenti nel nostro paese,
dilatandole sino a determinare la Svimez a valutare,
nel suo rapporto annuale, che allo stato delle
cose occorrono 400 anni perché il Sud
possa raggiungere il livello di vita civile,
di benessere, di cultura, di occupazione riscontrabili
al Nord.
A parte la considerazione che si propone ai
meridionali un traguardo irraggiungibile, perché
presuppone la crescita - sia pure lenta - del
Sud e il blocco totale dello sviluppo del Nord,
in effetti previsioni di così lungo periodo
danno la sensazione di un gioco accademico.
Sono di diversa natura gli interventi necessari,
partendo dalla consapevolezza che la partita
decisiva non si gioca più in casa, all’interno
dei singoli Stati, ma sul terreno europeo, dove
l’Unione ha compiuto un percorso rilevante,
nonostante la difficoltà di superare
i vecchi schemi della sovranità, attribuendo
all’esecutivo continentale un ruolo che
non è più solo di indirizzo, ma
pure di decisione. C’è ormai di
fatto una cornice istituzionale dentro la quale
si svolgono rapporti di natura politica. Basta
considerare quanto incide la decisione di inserire
nella Costituzione di tutti i paesi membri l’inderogabilità
del pareggio di bilancio e la uniformità
delle operazioni di scambio. Mai nella storia
unitaria del paese, come da trent’anni
a questa parte, i fattori degenerativi delle
politiche nazionali hanno così largamente
coinciso con le tare tradizionali del Sud. La
“questione meridionale” esiste e
il silenzio non è una cura. Proviamo
a ripartire?