Versi Dialettali - DETTI E PROVERBI
IL BRINDISINO TRA DETTI
E PROVERBI
Eco dall'antica saggezza popolare, esprimono in modo
allusivo e figurativo, concetti e sentenze. Sono pronti
a venir fuori all'occorrenza per consigliarci e accompagnarci
nella vita quotidiana
Si fa spesso uso di
proverbi e modi di dire per esprimere un concetto e
renderlo ancora più chiaro ed incisivo. Numerosi
detti popolari, derivanti dall'esperienza e dalle antiche
tradizioni, sono entrati a far parte del linguaggio
corrente per orientare alla quotidianità, raccontando
i vizi e le virtù della gente. La straordinaria
varietà di termini e di frasi bizzarre utilizzate
per formulare un pensiero, un'opinione, per consigliare
qualcuno o semplicemente per esprimere insofferenza
e rabbia, contengono anche principi di filosofia e di
morale, un'inesauribile fonte di saggezza e di contraddizioni.
Le fondamentali caratteristiche
dei proverbi sono la sinteticità, il ritmo e
il doppio significato, quello reale e l'allegorico.
Tutti elementi presenti nell'aforisma brindisino "nà
fatia, nà!", dove si allude ad un
immaginario impiego lavorativo ad andare incontro allo
sfaticato.
"Cìttu cìttu a'mienzu alla
chiazza" è il tipico epigramma antitetico,
ossia formato da una frase divisa in due parti dal significato
contraddittorio. Il componente figurativo è la
persona incapace di mantenere un segreto, o cerca di
farlo parlando a bassa voce in un luogo particolarmente
chiassoso e affollato. Chi difettava di riservatezza
era inoltre appellato come "nò sapi
tinerì nu ciciru a 'mbocca" (non
sa tenere un cecio in bocca, sputa fuori tutto).
Per definire un individuo
sempre abile a trovare una scusa per giustificare il
proprio operato, si usa ancora oggi l'asserzione "acchìa
sempri la pezza a culori", mentre lo scaltro
e intrigante, oltre che imbroglione ('mbrugghioni),
in molti casi veniva detto "scangiargientu",
riferendosi al cambia monete in argento che nel medioevo
riusciva a fare ottimi affari con gli sprovveduti, a
loro volta considerati "maccarruni"
(goffi e impacciati). Proseguendo nel campionario di
epiteti utilizzati per descrivere l'incapace e il maldestro,
si usava dire "nò 'mbali nà
lira" (di poco valore), ma anche "crìmoni",
"carniali" e "scapucchioni".
Una delle frasi senza senso apparente, rimasta in uso
sino al recente passato, è "messì
'nfucatu l'anca a mari", vale a dire "sarebbe
stato meglio se avessi affogato una gamba in mare, piuttosto
che offenderti".
Il caratteristico
chiacchierone, sempre attivo nel proporre discorsi prolissi,
ridondanti e poco interessanti, era segnalato come "taccabuttoni":
l'efficacia del termine è avvalorata dal disagio
provato da chi lo stava ad ascoltare, lo stesso di colui
che si faceva attaccare un bottone al pantalone o alla
camicia senza togliersi l'indumento. Se poi il tizio
si esibiva in uno sproloquio senza sosta, si ironizzava
dicendo: "s'è ttaccàtu ti manu".
Molteplici sono i detti che fanno riferimento alle attività
lavorative e alle disparità di trattamento. In
talune si usavano figure retoriche per ottenere una
maggiore efficacia comunicativa, come ad esempio: "la
jaddina faci l'ovu e allu jaddu li usca lu culu"
(la gallina fa l'uovo e al gallo brucia il sedere),
con riferimento a chi, lavorando meno di altri, si lamenta
in continuazione. Ed ancora, l'antico proverbio salentino
"a ci fati nà sarda, a ci non ci fatia
nà sarda e menza" (a chi lavora
una sarda, a chi non lavora una sarda e mezzo) ci ricorda
che non sempre una retribuzione corrisponde agli sforzi
profusi, spesso chi non fa niente ottiene maggiori vantaggi.
Restando nell'ambito
lavorativo, se non ci fossero stati i margini per completare
una attività, gli anziani avrebbero detto semplicemente:
"amu spicciatu di mètiri e di pisari"
(abbiamo finito di mietere e mondare le granaglie).
Quando poi al problema non si trovava una via di uscita,
si impiegava la forma stringata "quandu è
negghia è negghia" (se c'è
nebbia non si vede spiraglio).
"Putrisinu ogni minestra" si
intende ancor'oggi un onnipresente, che ovunque si vada
lo s'incontra, allo stesso modo un personaggio sempre
a zonzo veniva qualificato come "no teni
culu di casa". Mentre a colui che interveniva
nel momento sbagliato, fuori luogo e senza senso, si
proferiva con "si 'ndè assutu a frunchiu"
(è venuto fuori come un foruncolo).
Tra le tante espressioni
idiomatiche locali, in molti ricordano il modo di dire
"mè catuta la facci an terra"
a significare il profondo imbarazzo e la vergogna provata
dopo una figuraccia.
L'invocazione alla giustizia divina verso una persona
detestata si compiva con la frase "cu ti
picchia na sajetta" (che tu venga folgorato
da un fulmine).
Nella ricca vivacità che caratterizza il repertorio
dell'insulto puro, senza entrare nel turpiloquio, si
vogliono ricordare alcuni vocaboli coloriti riservati
alle sole donne, fortunatamente oggi del tutto abbandonati:
si definiva "sciumenta" (giumenta,
cavalla da monta) una ragazza alta e prosperosa, ed
ancora con il termine desueto "struscipitùli"
era identificata colei che nell'andare in giro a spettegolare
consumava le calze. Era l'esatto contrario della donna
ideale di una volta, ossia colei che doveva restare
sempre in casa. Nel ceto popolare si usa ancora il lemma
"jattamorta" a indicare una
donna astuta che si finge innocua e ingenua, ma che,
come i gatti al momento buono, è capace di sorprende
la sua preda. Un atteggiamento di falsa cortesia che
nasconde uno scopo altrettanto ingannevole veniva fatto
risuonare nell'espressione "quandu lu tiaulu
ti 'ncarizza, voli l'anima".
L'indole non sempre
buona della natura umana ha spesso generato maligne
punzecchiature nei confronti dei portatori di handicap
fisici. Chi, ad esempio, zoppicava o muoveva male la
gamba veniva chiamato "ancasciola",
mentre una persona affetta da accentuato strabismo era
apostrofato come "uarda la iatta e frici
lu pesci" (con un occhio guarda il gatto
e con l'altro frigge il pesce). "Baconchi"
era invece l'uomo basso e tozzo, l'esatto contrario
(uno spilungone longilineo) veniva solitamente annoverato
come "lìnghi-lònghi".
"Capurioni"
era l'agitatore nonché capeggiatore di sommosse,
mentre "cacafavi" continua a
rappresentare il tipo inconcludente e tutt'altro che
raffinato, generalmente proveniente da famiglie umili,
dove l'unico e frugale pasto giornaliero era a base
di fave e altri legumi.
Ricchissima è la deformazione lessicale in chiave
ironica dell'infedeltà coniugale. Il significato
intuitivo è intrinseco nell'affermazione "curnùtu
e cuntientu", decisamente meno felice doveva
essere colui che, oltre a perdere la dignità,
era stato umiliano e costretto a cambiare abitazione:
"curnutu, vattùtu e cacciatu ti casa",
come dire, oltre al danno la beffa. Le definizioni spregiative
"curnùtu a paletta" e
"corni cimati" erano invece
riservate a chi veniva tradito ripetutamente e in maniera
palese.
L'appiattimento linguistico degli ultimi tempi, standardizzato
e ricco di luoghi comuni, sta pian piano rimpiazzando
i proverbi e i modi di dire tradizionali, quelli che
ad ogni avvenimento della vita quotidiana avevano sempre
qualcosa da suggerire, un eco dell'antica saggezza che
non sarà mai dimenticato.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n. 309 del 07/07/2023
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