LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
LE BARACCHE
DI BRINDISI
Dallimmediato Dopoguerra sino alla metà
degli anni Settanta migliaia di persone hanno abitato
in tuguri dislocati nelle periferie della città.
le memorie di chi ha vissuto quegli anni, con grande
dignità
La Brindisi uscita
dalle devastazioni belliche era una città in
grande difficoltà, dove la povertà la
faceva da padrone. Le tante immagini in bianco e nero
documentano chiaramente la drammaticità di quegli
anni caratterizzati da un grande disordine abitativo,
con numerosi baraccamenti in varie zone del centro abitato.
Circa i due terzi del patrimonio edilizio cittadino
era stato distrutto o seriamente danneggiato a seguito
dei continui e numerosi bombardamenti aerei patiti durante
il conflitto, centinaia di nuclei famigliari furono
costretti ad arrangiarsi in un riparo di fortuna, un
infinito provvisorio durato per quasi tre generazioni.
Nella periferia urbana si costruirono strutture precarie
o venivano occupati capanni in legno e lamiera già
utilizzati come depositi dalle truppe italiane o tedesche,
veri e propri acquartieramenti destinati a diventare
l'emblema dell'emergenza abitativa che investì
l'intera nazione tra i primi anni '50 e la fine dei
'60. Un periodo storico ben rappresentato anche nel
grande cinema con alcuni capolavori del neorealismo,
che misero in forte evidenza gli squilibri e i disagi
sociali di quegli anni.
Immagine di vita nelle baracche
alla cosiddetta "Corea" (1965)
Nella nostra città
i principali simboli di tale situazione furono gli insediamenti
della cosiddetta Corea, insieme a quelli di via Appia
(sull'area di fronte all'ospedale Cesare Braico) e di
via Cappuccini; altre baraccopoli erano presenti al
rione Perrino, alla Minnuta (nelle guarnigioni militari
presenti nei pressi dell'ex stabilimento Sidelm, affianco
all'odierno Istituto Commerciale), al rione Paradiso
(qui oggi c'è la caserma dei VVFF) e in via Castello,
dove attualmente sorge la Scuola Salvemini. In queste
favelas viveva un esercito di persone in attesa di una
sistemazione più dignitosa, una tappa che per
qualcuno è durata anche due decenni, o persino
l'intera vita. Probabilmente sono tanti i brindisini
che ricordano ancora quelle strutture, costruite con
materiali di risulta provenienti dalle demolizioni di
edifici già sventrati dalle bombe, rimaste in
piedi addirittura sino alla metà degli anni Settanta,
un contesto abitativo per molti versi imbarazzante che
sembrava non trovasse soluzione, nonostante le promesse
e le dichiarazioni pubbliche ripetute per anni.
La Corea era un vero
e proprio rione situato sul lato nord di via Nicola
Brandi, le prime costruzioni erano confinanti con i
palazzi abitati dagli americani della Base Usaf (affianco
all'Ostello della Gioventù) e occupavano tutta
l'area dove oggi sorge la caserma della Guardia di Finanza,
sino a raggiungere lo spazio poi utilizzato per costruire
l'Istituto per Geometri e il Liceo Scientifico. A molti
suonava male chiamarla così, "e per darsi
tono dicono 'baracche polacche', che poi è la
stessa cosa. Sarebbe meglio se si chiamasse Casbah,
il perché ve lo suggerisce il colore stesso del
vocabolo" scriveva un cronista ai primi anni
'60, quando già si chiedevano "fino a
quando" questa incresciosa situazione doveva
esistere, senza sapere che dovevano passare più
di una dozzina di anni prima del completo sgombero e
la demolizione di tutto quel complesso fatiscente. Era
un agglomerato di capannoni in muratura, alcuni erano
lunghi venti-venticinque metri e larghi tre o quattro,
all'interno vi erano dei divisori più o meno
consistenti e più o meno trasparenti, dove vivevano
in promiscuità oltre duecento famiglie. Poi c'erano
altre costruzioni più piccole monofamiliari,
che non superavano i trenta-quaranta metri quadrati
di superficie. In queste specie di abituri mancava di
tutto, dai servizi igienici all'acqua corrente, dal
riscaldamento alla luce, e gli abitanti ovviamente non
erano in grado di osservare le più elementari
norme igieniche.
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Annarita Manfredi in braccio
alla sorella davanti alla loro casa alla "Corea"
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Annarita Manfreda (con gli stivaletti)
insieme ad altri ragazzini della "Corea"
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"I ragazzini
avevano il compito di andare a prendere l'acqua dall'unica
fontana che era nei pressi dell'attuale Istituto Nautico",
ricorda Annarita Manfredi, nata e cresciuta per
una decina di anni in una di quelle baracche. "Per
lavarci la mamma intiepidiva l'acqua sul fuoco della
carbonella prima di versarla nella tinozza di metallo,
la nostra vasca da bagno. La 'craunella' serviva anche
per riscaldare le abitazioni durante l'inverno, veniva
preparata - e anche venduta - da mio padre Ugo, contadino
e poi netturbino, un gran lavoratore che non ha fatto
mancare nulla ai suoi sei figli". Le strade,
se così possiamo chiamarle, erano parallele tra
loro, sterrate e non illuminate, e quando pioveva diventavano
fangose e putrescenti, anche per le acque di scolo formatesi
nelle case e che vanivano raccolte in un canale che
correva a ridosso della strada principale. I bisogni
corporali si facevano nei pitali (vasi da notte) che
poi venivano svuotati in un contenitore collocato nei
pressi della fontanella, periodicamente ripulito da
appositi mezzi. Nei periodi caldi e umidi l'aria diventava
perciò irrespirabile e malsana in tutta l'ampia
zona. "Eppure ricordiamo quegli anni come felici
e spensierati, si giocava tutti insieme, ci si aiutava
in comunità, eravamo come un'unica famiglia
- afferma la signora Manfredi - forse eravamo inconsapevoli
della nostra povertà, solo oggi possiamo capire
cosa significava vivere in quelle condizioni, ma non
abbiamo assolutamente vergogna a raccontarlo: è
una parte importante della nostra vita che ci ha fatto
comprendere il valore di quell'unica bambola di pezza
per giocare, dell'unico vestito e paio di scarpe che
ci compravano in un anno, del solo libro per andare
a scuola, da raggiungere sempre a piedi accompagnati
dai fratelli o insieme ad altri coetanei".
Verso la metà degli anni '60 alla famiglia di
Annarita fu assegnata una casa al rione Paradiso, i
suoi nonni e zii rimasero lì ancora per diversi
anni, prima che il Comune attribuisse loro una nuova
abitazione popolare al rione Sant'Elia.
La baracche del rione Cappuccini
Anche in corrispondenza
del lato a nord dell'ex ospedale Di Summa, tra via Cappuccini
e la ferrovia, sorgevano una serie di casermoni in legno
che erano stati i depositi dei tedeschi durante la guerra,
furono occupati dagli sfollati già subito dopo
il conflitto. Poco dietro, a chi non aveva un alloggio,
venne permesso di costruire piccole abitazioni in muratura
con il tetto in legno. Anche qui non esistevano servizi
igienici, acquedotto ed energia elettrica: "per
farci luce accendevamo le lampade a petrolio"
racconta la signora Teresa Vantaggiato che qui
ha vissuto i suoi primi nove anni di vita, sino a quando
anche alla sua famiglia non fu assegnata una casa al
rione Paradiso. "I casermoni erano molto sporchi
e pieni di insetti e cimici, furono abbandonati e demoliti
per primi, le altre baracche rimasero in piedi sino
al 1964. Ricordo ancora bene la fontana che si trovava
lì vicino, era un luogo di ritrovo e di socializzazione
soprattutto per le donne: qui si lavavano gli indumenti,
le verdure e più volte al giorno si attingeva
l'acqua necessaria a tutti gli usi domestici. Poco oltre
si fermava la 'caratizza', in quel lurido carro venivano
svuotati i vasi da notte di ogni famiglia; i 'cantri'
poi venivano lavati e riportati in casa".
La baracche del rione Cappuccini
Anche in questa parte
della città la comunità di abitanti viveva
in una situazione di grande precarietà, così
come avveniva nelle altre baraccopoli brindisine, era
una popolazione di invisibili e discriminati, fatta
principalmente di contadini, piccoli artigiani e operai,
ambulanti e pescivendoli. I loro visi non corrispondevano
all'anagrafe, erano persone invecchiate prima del tempo
per via dell'umidità e l'insalubrità dei
loro alloggiamenti, scaldati da semplici bracieri in
ottone. A ridosso di alcuni tuguri c'erano i ricoveri
per gli animali, come i cavalli utili per i lavori in
campagna, e le galline, che scorrazzavano libere per
le strade. Qui si vedevano passeggiare anche grossi
topi, scarafaggi e tanti altri parassiti. I ragazzini
però correvamo e giocavamo allegri nelle campagne
limitrofe e persino sui vicini binari, "i treni
erano a vapore e si vedevano arrivare a distanza, avevamo
tutto il tempo per metterci al sicuro" ricorda
ancora la signora Teresa. "Le baracche erano
piccole, con il pavimento fatto di solo cemento, ma
si cercava di tenerle ordinate e pulite. Nonostante
la miseria c'era sempre tanta solidarietà
- ribadisce - si condividevano le gioie ma anche
i tanti momenti difficili. Aspettavamo con trepidazione
le festività, in quelle occasioni il Comune donava
a tutte le famiglie alcuni viveri, e quando arrivava
la Pasqua per noi bambini c'erano le uova di cioccolato
e i regalini per l'Epifania, piccole cose che però
ci rendevano particolarmente felici. Eravamo contenti
di quella nostra vita, semplice e dignitosa, siamo cresciuti
con i sani principi e abbiamo capito il valore di ciò
che abbiamo oggi e dei tanti sacrifici fatti dai nostri
genitori".
Una pagina di storia
minima della città che non trova ancora spazio
sui libri, ma rimane conservata con fierezza nella memoria
di donne tenaci, che hanno imparato ad andare oltre
i pregiudizi, facendo tesoro di quegli anni, difficili
da dimenticare.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.271 del 17/10/2022
Alcune immagini dei baraccamenti
a Brindisi nel secondo dopoguerra (clicca per
ingrandire)
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