LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
LA CONDIZIONE
FEMMINILE NEL SALENTO
tra l’ottocento e la prima metà
del ‘900
Il lungo percorso di emancipazione
iniziato negli anni cinquanta ha portato
all’abolizione di molte discriminazioni.
ma non tutte
Quanto è
cambiata la condizione femminile nell’ultimo
secolo. Considerata inferiore all’uomo
ed esclusa da una serie di diritti e di attività,
per secoli la donna è stata relegata
al solo ruolo di madre e moglie e mera esecutrice
le faccende domestiche. Lentamente e con fatica,
il lungo percorso di emancipazione iniziato
tra gli anni ’50 e ’60 del secolo
scorso ha portato all’abolizione di molte
disparità e discriminazioni, ma la meta
da raggiungere per una più equa parità
dei diritti è ancora lontana.
Foto di un matrimonio
nei primi del '900
In tempi
non proprio remoti l’istruzione scolastica
era riservata quasi esclusivamente ai maschi
poiché le bambine dovevano accudire i
fratelli più piccoli e badare alla casa;
nel dopoguerra gli istituti scolastici e poi
le classi vennero distinte in maschili e femminili
ed affidate ad un unico e rigoroso maestro,
le materie che si studiavano erano poche, bastava
imparare a leggere, a scrivere e fare qualche
calcolo aritmetico. Le fanciulle dovevano obbligatoriamente
indossare grembiuli lunghi di colore diverso
da quello dei maschi, sul quale veniva appuntato
uno scudetto dove, con numeri romani, era indicata
la classe di frequenza. Alle ragazzine non era
permesso giocare fuori dalle mura domestiche,
nei pomeriggi venivano preparate all’arte
del cucito e del ricamo seguendo gli insegnamenti
ed i consigli della madre e della nonna, era
l’occasione per ascoltare i racconti,
i ricordi di vita e i consigli pratici in prospettiva
del matrimonio, utili a salvaguardare l’onore
e la morale. Il padre era una figura molto temuta,
guai a non farsi trovare in casa al suo ritorno,
bastava uno sguardo per atterrire moglie e figli
ai quali non faceva mancare i ceffoni “educativi”
motivati dal detto popolare: “mazzati
e panelli fannu li fili beddi” (percosse
e pane fanno i figli belli e buoni).
Le signorine
raramente ricevevano il permesso per uscire
e passeggiare da sole, dovevano essere sempre
accompagnate da fratelli, genitori o parenti,
potevano fermarsi a parlare con le coetanee
ma sempre in presenza di un adulto senza avere
molta libertà d’azione. Il corteggiamento
partiva sempre dall’uomo, che si faceva
notare indugiando nei pressi dell’abitazione
della ragazza o transitando più volte
da quella strada fischiettando, sperando in
un cenno di approvazione: gli bastava anche
un sorriso accennato o uno sguardo fugace per
sentirsi appagato. La dichiarazione d’amore,
scritta o verbale, veniva affidata ad un conoscente
di fiducia che si assumeva il compito di convincere
e combinare il matrimonio (“ambasciata”),
dall’altra parte era necessaria una attenta
valutazione del pretendente sulla base del lavoro
svolto, delle condizioni economiche della famiglia
e delle qualità morali. Durante il periodo
di fidanzamento era permesso alla coppia di
parlarsi davanti all’uscio o all’interno
della casa di lei, ma sempre alla presenza di
un famigliare e non più di due o tre
volte la settimana, in queste occasioni ci si
poteva scambiare anche alcuni regali, che in
caso di rottura del fidanzamento dovevano essere
restituiti. Se invece il consenso al matrimonio
veniva negato, ai due giovani innamorati non
rimaneva che la fuga d’amore (la “scinduta”),
la coppia si accasava da un parente disposto
ad ospitarli sino alla celebrazione di immediate
nozze riparatrici, un compromesso necessario
per tutelare l’onore ormai violato della
ragazza e della famiglia. In questo caso la
sposa non poteva indossare l’abito bianco,
simbolo di purezza, e la messa veniva celebrata
al mattino presto quando la chiesa era vuota.
Sposi e damigelle nei
primi del '900
Sempre durante
il periodo di fidanzamento i genitori discutevano
della dote che ognuno doveva portare, la sua
attribuzione era ritenuta come un vero e proprio
obbligo economico: per le donne la tradizione
imponeva un certo numero di capi del corredo,
preparati sin da quando le figlie erano ancora
piccole, si partiva da cinque per arrivare a
dieci, dodici o persino venti pezzi per tipologia
(lenzuola, asciugamani, tovaglie, strofinacci,
biancheria ecc.), dotazione conteggiata in gergo
come “panina cinque”, “panina
dieci”, “panina dodici” ecc.;
fra i beni dotali dell'uomo potevano annoverarsi
la casa, l’appezzamento di terreno, gli
strumenti di lavoro e gli animali da soma donati
dal padre.
La data delle
nozze – sempre di sabato o di domenica
- veniva concordata dai genitori degli sposi
sulla base delle esigenze economiche e lavorative,
solitamente le famiglie contadine preferivano
il periodo successivo alla raccolta. Il rito
nuziale veniva anticipato di qualche settimana
dalla “menzaffita” (la promessa),
era l’occasione per esibire in bella mostra
la dote della sposa ai vicini e parenti appositamente
invitati, un momento di particolare vanto per
quei genitori che potevano fornire un ricco
corredo. Ai familiari e alle “cummari”
più anziane, simbolo di maturità
e saggezza, era riservato il compito di preparare
il letto per la prima notte di nozze, si sceglievano
le lenzuola più belle e stoffe ricamate
a mano, il talamo veniva inoltre arricchito
con cioccolatini, confetti e soldi. Per tradizione
la mattina seguente era la madre dello sposo
a recarsi per prima dalla coppia e portare loro
il caffè: in realtà aveva il compito
di ispezionare le lenzuola per verificare la
prova della verginità. La sposa usciva
da casa solo otto giorni dopo il matrimonio,
chi poteva permetterselo di solito indossava
un tailleur nuovo.
La famiglia Arigliano
Durante il
periodo della gestazione la tendenza alla superstizione
era particolarmente radicata: alle signore venivano
nascoste le cattive notizie e si evitava di
farle assistere a scene violente e a spettacoli
di marionette, inoltre non era consigliato guardare
i portatori di handicap, poiché tutto
ciò avrebbe inciso sulla condizione di
salute del nascituro. La scaramanzia veniva
tirata in ballo anche per conoscere in anticipo
il sesso del bambino, erano tante le pratiche
utilizzate, una delle più comuni veniva
eseguita durante la cottura della pasta fatta
in casa: se in superficie saliva per prima il
cavatello rispetto alla “stacchiodda”
sarebbe nato un maschio. In gravidanza la donna
non si sottoponeva mai ad analisi e a controlli
medici, tutto era affidato alla provvidenza
e a qualche santo protettore. Il parto avveniva
in casa con l’assistenza di una levatrice
detta “mammara”, un mestiere che
generalmente veniva tramandato da madre in figlia
senza alcun corso di formazione specifica. Per
alleviare i dolori della partoriente si utilizzavano
esclusivamente rimedi naturali, come panni caldi
e camomilla con foglie di alloro, ovviamente
in queste condizioni erano frequenti gli aborti
e casi di morte del nascituro o della puerpera.
Dopo il parto e per alcuni giorni, la neo mamma
doveva cibarsi di solo brodo di gallina o di
piccione, utile a favorire la montata lattea.
Alcune partecipanti al
corso di taglio e cucito negli anni 50 (Archivio
Giancarlo Cafiero)
In ospedale
o dal medico si andava solo raramente, per slogature,
contusioni, lussazioni, dolori muscolari e per
i malanni più comuni ci si rivolgeva
alle “guaritrici”, custodi di rimedi
e pratiche popolari primitive: queste figure
carismatiche riuscivano a mettere a posto una
distorsione e persino una frattura (talvolta
però con ripercussioni e danni permanenti
agli arti), eliminare i gonfiori utilizzando
l’albume di uovo sbattuto, alleviare il
dolore con le celebri “coppe a vientu”,
e grazie alla conoscenza di erbe e piante officinali,
preparare infusi e decotti efficaci per curare
raffreddori, febbri, tosse e debellare i vermi
intestinali.
Sebbene le donne del passato vissero in uno
stato di costante sottomissione, costrette a
volte ad accettare ogni tipo di abuso, furono
abili e capaci ad assumere il ruolo di vere
protagoniste anche in ambito lavorativo: durante
le guerre, in assenza delle figuri maschili,
si trasformarono in operaie, infermiere, braccianti
agricole, cuoche, macchiniste, dattilografe,
poliziotte, senza mai tralasciare la cura dei
figli e gli incarichi domestici, contribuendo
efficacemente alla collettività e all'economia
della nazione.
Si ringrazia per
la collaborazione la sig.ra Mina Arigliano
Giovanni
Membola
per Il 7 Magazine n.88 dell'8 marzo 2019
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