LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
IL PRIMO ELEFANTE
A BRINDISI, QUANTA CURIOSITA’
Destinato a Carlo III di Borbone, giunse da Costantinopoli
il 7 settembre 1742 e sostò in città,
destando tanta curiosità, sino al 18 ottobre
quandò partì per la Corte di Napoli.
Alla sua storia si deve un famoso detto popolare napoletano
Da alcuni decenni
vedere nelle nostre città un elefante o di un
altro genere di animale esotico non suscita particolare
sorpresa. Anche se negli ultimi tempi ne è stato
limitato l’utilizzo, è sempre possibile
poter osservare da vicino questi esemplari in circhi,
giardini zoologici o in allevamenti specializzati.
Ma nel passato non troppo lontano la presenza di un
pachiderma nelle nostre zone era considerato un evento
eccezionale, tanto da rimanere impresso tra le più
curiose e piacevoli memorie dell’epoca. Si legge
infatti su una nota del XVIII secolo che “elefanti
non se ne vedevano nel Salento dai tempi di Pirro e
si può giurare che nessuno li ricordava”.
Il riferimento è al singolare episodio che andiamo
a ricordare.
Mappa di Brindisi del 1674 con
la chiesa di materdomini indicata nel cerchietto rosso
Era il mezzogiorno
del 7 settembre del 1742 quando nel porto della nostra
città fece ingresso una tartana agli ordini del
“piloto” brindisino Felice Chisiena
“alias di Marro“, la tipica imbarcazione
da carico a vela latina faceva parte di un convoglio
da qui partito per Durazzo il 20 agosto con numerosi
marinai brindisini e dalla sponda opposta dell’Adriatico
faceva ritorno. Il piccolo veliero approdò nel
porto medio della città nei pressi della spiaggia
di San Leonardo, oggi meglio conosciuta
come zona Materdomini, proprio di fronte
all’isola di Sant’Andrea, dove “subito
con ponti fu calato” un imponente esemplare
maschio di elefante indiano (Elephas maximus)
che da Costantinopoli era destinato al “nostro
Re” Carlo III di Borbone.
Il timido e disorientato animale, scortato da sei turchi
che avevano l’incarico di “governarlo”,
fu rinchiuso in “contumacia” -
una specie di quarantena - nel giardino dell’antico
edificio sacro dedicato a san Leonardo, già Santa
Maria Mater Domini da cui il nome a tutta la
zona.
La notizia dell’insolita presenza di una così
rara e meravigliosa creatura si diffuse in tutto il
circondario in brevissimo tempo, suscitando enorme curiosità,
furono in tanti a voler osservare da vicino il grande
mammifero proboscidato giunto dalla lontana Persia,
a cominciare dagli ecclesiastici della chiesa e dai
pochi residenti nei casali della zona. Il racconto narra
che per l’occasione giunse a Brindisi anche “il
signor Marchese di Oria colla moglie”, seguirono
altri illustri personaggi dell’epoca provenienti
da diverse località da tutta la provincia di
Terra d’Otranto, come la principessa di Belmonte
con il “signor Preside di Lecce Duca di Cerasale”,
il figlio della principessa e quello del marchese Chiurli
di Cellino san Marco nonché Cavaliere di Malta,
così pure il Marchese di Campi. “Ed
ogni giorno – si legge ancora nella Cronaca
- un’infinità di forestieri da tutte
le parti della Provincia” giungevano a Materdomini
per ammirarlo.
L’elefante
fu fatto credere come dono del sultano turco ottomano
Mahmud I al sovrano del Regno di Napoli in
cambio di tavole di marmo pregiato, in realtà
fu acquistato con denaro della Corte - e dopo laboriose
pratiche - dal conte Finocchietti,
incaricato borbonico agli affari presso il governo dell'Impero
ottomano, su iniziativa del marchese di Salas,
allo scopo d’ingraziarsi il re che tanto lo desiderava
per il suo Serraglio; secondo lo storico Michelangelo
Schipa con questa operazione “si voleva con
questo presunto successo in politica estera, rafforzare
nell’interno il prestigio del nuovo re Carlo di
Borbone”.
Carlo III di Borbone e il sultano
Mahmud I
Le caratteristiche
principali della mastodontica bestia furono dettagliatamente
riportate, non senza meraviglia, dal Cronista dell’epoca:
“egli è alto palmi 14 e mezzo, lungo
13, largo più di sei (corrispondenti rispettivamente
a 3,80, 3,40 e 1,58 metri - n.d.r.), la proboscine
è ben lunga sino a terra e più, l’orecchie
come due pesce rascie (Razza), l’occhi
più piccoli di un cavallo, raso di pelo e di
color sorcigno (grigio-cenere), e così
la coda, gambe grossissime”. Si cibava di
novanta libbre (circa 29 kg) di fieno al giorno e “cannazza,
rotola 30 di pane (quasi 27 kg), libre 6 di
buttiro, e rotola 4 di zucchero, e tre barili di acqua
(oltre 130 litri) e coll’istessa sua proboscine
si ciba e beve e coll’istessa dimostra una forza
irresistibile, stando sempre incatenato a tre piedi,
e quelli turchi che lo governavano, col parlarli, le
facevano fare molte operazioni e li temeva ed ubbidiva”.
Fu anche descritto in un breve saggio scientifico dall’illustre
letterato napoletano Francesco Serao.
Regal Villa (Reggia) di Portici
Dopo una sosta di
oltre un mese, l’elefante fu fatto ripartire per
la capitale del regno la mattina del 18 ottobre seguendo
una lenta marcia via terra, l’animale infatti
non poteva percorrere più di dieci miglia al
giorno, poco più di diciotto km circa. Ad accompagnare
il pachiderma “sette soldati dell’udienza
fino all’altra provincia e così di provincia
in provincia sino a Napoli col coronello e sei turchi
che lo governano”. Giunse alla Regal
Villa di Portici - dove la Corte si tratteneva
- l’1 novembre di quell’anno, e nello zoo
privato della fastosa reggia fu tenuto con grande orgoglio
insieme ad altri animali esotici e feroci (leoni, pantere,
struzzi, canguri ecc.).
Anche qui, sin da
subito, divenne un’attrazione notevole: migliaia
di persone si recavano a vederlo, pagando una mancia
al caporale dei veterani dell'esercito che se ne prendeva
cura; inoltre veniva fatto sfilare dal re durante le
sue parate ufficiali così da poter mostrare con
fierezza l'animale, ancora sconosciuto alla maggior
parte dei sudditi, fu inoltre esibito nel 1743 sulla
scena del teatro San Carlo durante
l’opera di Pietro Metastasio
“Alessandro nelle Indie”,
rappresentazione che riscosse tantissimo successo e
grande entusiasmo. L’elefante fece così
tanta impressione da essere anche raffigurato in una
statua in terracotta di Gennaro Reale
e in un dipinto di Pellegrino Ronchi,
oggi in mostra nella Reggia di Caserta. Un altro ritratto
fu commissionato da Carlo III al pittore Giuseppe
Bonito per essere inviato ai propri genitori
in Spagna, opera attualmente esposta nel Palazzo Reale
di Riofrío nei pressi di Segovia.
Fotogalley
(clicca sull'immagine per ingrandirla) |
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Il
dipinto dell'elefante realizzato da Giuseppe
Bonito |
Il
dipinto dell'elefante realizzato da Pellegrino
Rocchi |
Lo scheletro
dell'elefante
(ph. F. Reale) |
Dopo la morte dell’animale,
avvenuta nel 1756 e causata probabilmente per una scorretta
alimentazione, lo scheletro e l’epidermide furono
montati su un supporto metallico ed esposti al Museo
Borbonico, dove nei primi dell’ottocento vennero
trafugate dapprima le zanne e poi un po’ per volta
anche la dura pelle, utilizzata per confezionare le
calzature. Lo scheletro nel 1819 fu poi trasferito al
Museo Zoologico di via Mezzocannone dove ancora
oggi è esposto.
Scheletro dell'elefante al Museo
Zoologico di Napoli
Con l’improvviso
decesso dell’animale, il militare che lo accudiva
dovette tornare ai suoi compiti d’ordinanza, con
servizi di guardia e d’istituto come tutti gli
altri commilitoni, interrompendo quella vita comoda
e oziosa che gli permetteva anche di incassare laute
mance, da qui l’origine dell’espressione
idiomatica “Capurà’,
è mmuort’ l’alifante!”
ad indicare la fine di una situazione favorevole. Il
detto popolare, citato anche da Benedetto Croce, è
ancor’oggi utilizzato nei confronti di qualcuno
che continua a vantarsi di una prerogativa che aveva
ed ora non ha più, e che pertanto è costretto
a tornare ai quotidiani impegni dopo un periodo di occupazioni
privilegiate.
Giovanni
Membola
per Il 7 Magazine n.95 del
26/4/2019
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