LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
L'ESODO DEGLI
ALBANESI
L’ondata
rivoluzionaria nell'Europa Centrale ed Orientale, avviata
nell'autunno del 1989 con il rovesciamento dei regimi
comunisti avvenuta in maniera quasi sempre pacifica,
nel giro di pochi mesi vede coinvolte in ordine Polonia,
Germania Est, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania,
una stagione denominata Autunno delle Nazioni
che può ritenersi completata con la rinascita
della democrazia e del multi-partitismo anche in Albania.
Durante queste ultime vicende la città di Brindisi
si trova a svolgere un'importante ruolo essenzialmente
umanitario.
Nel 1990 il
governo totalitario di Tirana è in forte crisi
di consensi, viene contestato duramente in numerose
manifestazioni popolari e oltre ottomila dissidenti
chiedono asilo politico nelle ambasciate di alcune nazioni
europee; la risposta governativa è aspra, alcune
dimostrazioni vengono stroncate duramente dalla polizia
ma allo stesso tempo si permette il trasferimento via
mare a Brindisi ad oltre quattromilacinquecento ribelli.
La
breccia è così aperta, il richiamo verso
la libertà è forte, tanto che dal
28 febbraio all’8 marzo del 1991 oltre
ventimila albanesi giungono a Brindisi su imbarcazioni
di ogni tipo, mercantili e pescherecci malandati vengono
presi dai porti albanesi sul quale gli esuli si accalcano
e attraversano l’Adriatico in condizioni igienico-sanitarie
molto precarie.
Non appena queste “carrette del mare” riescono
ad attraccare sui moli del porto interno della città
pugliese in molti sbarcano e si riversano per le vie
del centro cittadino, è un flusso incontrollabile,
nonostante le forze dell’ordine che cercano di
tenere questi disperati in aree a loro destinate ed
improvvisate, coadiuvati da tanti volontari che si adoperano
senza sosta per aiutare e soccorrere i feriti, le donne
ed i bambini, davvero numerosi. La popolazione locale
anche se impreparata all’emergenza si prodiga
offrendo abiti, cibo e aiuti alla folla di fuggiaschi
errante per le strade o nei pressi degli ingressi delle
proprie case.
E’ una vera e propria gara di solidarietà
che parte spontaneamente alla vista di tanta gente affamata,
coperta da abiti bagnati e laceri dopo una notte trascorsa
sulle banchine e protetti dal freddo solo da teli in
plastica. Esseri umani complessi nella loro spontaneità,
sognanti davanti alle vetrine dei negozi, dei bar, che
guardano gli italiani come ad un popolo di un mondo
lontano, uomini e donne che sembrano esser giunti dal
passato a rivelare una realtà antica e distante,
invece contemporanea ed a pochi chilometri dalla nostra.
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foto di Damiano Tasco
(1991) |
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L’arrivo dei
profughi continua anche nei giorni successivi mentre
non giunge alcuna disposizione dal governo centrale,
nessun aiuto, le autorità locali si sentono abbandonate
e denunciano la situazione, che invece viene definita
“sotto controllo” dai principali network
italiani, che raccontano alla nazione la presenza “da
giorni” di tende ed ospedali da campo, di militari
e di sanitari.
In realtà la città resta isolata e non
ha le strutture idonee e sufficienti per ospitare tutti
questi profughi. Solo un migliaio trovano sistemazione
nelle scuole, negli alberghi e persino nelle abitazioni
private, tutti gli altri restano all’aperto per
giorni interi. Solo la (riconosciuta) carità
dei brindisini riesce in parte a fronteggiare l’emergenza.
La protezione civile e l’esercito giungono a Brindisi
solo dopo il 9 marzo, quando, con lentezza, si iniziano
a trasferire i profughi in centri di raccolta di altre
località italiane.
Negli
anni successivi il flusso dei profughi continua costantemente,
i “viaggi della speranza” proseguono su
imbarcazioni di ogni tipo, come gommoni, barchini, zattere,
scafi, spesso in concomitanza con il trasporto di droga
e di armi.
La
malavita italiana ed albanese si organizza per sfruttare
questi disperati, provenienti anche da altre zone dell’est
europeo e dall’Asia, il breve tragitto tra le
due sponde dell’Adriatico (Valona-Brindisi 55
miglia, Durazzo-Brindisi 75 miglia) diventa in breve
tempo la via dell'intreccio affaristico-mafioso-politico
legato al commercio di profughi e della prostituzione.
Tra gli esuli si mescolano anche teppisti e criminali.
Nel
marzo del 1997 si ripete l’emergenza con l’arrivo
di oltre ventimila profughi, un flusso definito “allarmante
e incontrollabile”, un “esodo biblico”,
che porta il dibattito politico contrapposto tra chi
è aperto all’ospitalità a chi invece
chiede l’intervento dell’esercito, persino
con l’uso delle armi per “blindare l’Adriatico”.
La Marina Militare è chiamata a presidiare le
coste italo-albanesi per vigilare e dissuadere le partenze
di imbarcazioni carichi di clandestini. Mentre l’Europa
non riesce a decidere come intervenire in sostegno dell’Italia,
la situazione peggiora: vi sono colpi d’arma da
fuoco contro le navi e i militari italiani che cercano
di sbarrare la strada ai pescherecci carichi di esuli.
Violenza anche nei confronti di volontari e medici che
sono costretti a rientrare in Italia. Pertanto si decide
di adottare la “linea dura” intensificando
il blocco navale.
La tragedia
della Kater I Rades (28 marzo 1997)
In questo clima carico di polemiche e di tensione si
verifica la drammatica vicenda nel canale d'Otranto
del 28 marzo, un tragico Venerdì
Santo che vede la collisione a 25 miglia dalla costa
tra la corvetta “Sibilla”
della Marina Militare italiana con la “Kater
I Rades”, una motovedetta militare albanese
in disuso sovraccarica di profughi diretta a Brindisi.
L’imbarcazione albanese in uscita dal porto di
Valona viene intercettata dalla fregata "Zeffiro"
che intima l’alt senza esito, la segue per un
tratto di mare sino a lasciare il passo alla "Sibilla".
La corvetta insegue e gira intorno alla Kater che per
sfuggire opera una serie di manovre, in questo modo
è inevitabile l’impatto e il conseguente
affondamento del battello albanese.
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Il
relitto della Kater I Rades recuperato
(foto Mario Gioia - Gazzetta del Mezzogiorno) |
Muoiono 108
persone, tra loro molte donne e bambini, vengono ritrovati
solo 57 corpi, 34 i superstiti.
L’ONU definisce “inspiegabile” la
decisione italiana del blocco navale, l'ambasciata italiana
in Norvegia viene assaltata al grido di "italiani
assassini" mentre in Italia viene aperta un’inchiesta
giudiziaria dal Tribunale di Brindisi, che porta anche
al recupero dell’imbarcazione che giaceva a 800
metri di profondità, le operazioni si completano
il 22 ottobre.
Se da una parte si difende l’operato degli ufficiali
italiani, mentre per l'Osservatorio sui Balcani di Brindisi
è stato “un atto premeditato di pirateria
in acque internazionali, derivante dall'ordine di Roma
di fermarli ad ogni costo. Fu dunque una strage di Stato”.
Il 29 giugno del 2011
la Corte d’Appello di Lecce ha condannato a tre
anni e 10 mesi il comandante della vecchia motovedetta
albanese “Kater I Rades”, Namik Xhaferi,
e a due anni e 4 mesi il comandante della corvetta italiana
“Sibilla”, Fabrizio Laudadio, che speronò
accidentalmente la vecchia unità di fabbricazione
russa.
Il relitto della Kater I Rades
nel porto di Brindisi
Il relitto, che doveva essere demolito,
è stato voluto dal comune di Otranto dove è
stato trasformato in un'opera d’arte contemporanea
dal titolo “L’Approdo. Opera all’Umanità
Migrante”, realizzata dal noto scultore greco
Costas Varostos.
Sull'opera il regista brindisino Simone Salvemini ha
realizzato il documentario “L’approdo delle
anime migranti”, prodotto da La Kinebottega e
sostenuto da Apulia Film Commission (link).
Otranto, il relitto della Kater
I Rades trasformata nell'opera d'arte contemporanea
"L’Approdo. Opera all’Umanità
Migrante"
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