LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
IL TRAGICO NAUFRAGIO
DEI FIGLI DI IACCATO
Nel racconto dell'ultimo testimone, il ricordo dei quattro
giovani pescatori brindisini annegati durante una tempesta
nel 1950: un dramma che ispirò il brano musicale
cantato al Festival di Sanremo da Gino Latilla
Durante una fatidica
battuta di pesca, cinque uomini con la loro barca si
trovarono a sfidare il mare nel mezzo di una tremenda
burrasca. Lottarono duramente per portare lo scafo al
riparo dalla violenza delle onde, cercarono invano di
rientrare in porto, ma solo uno di loro riuscì,
miracolosamente, a salvarsi.
È la triste storia che ha visto protagonisti
tre giovanissimi fratelli pescatori che insieme ad altri
due amici erano sull'imbarcazione di famiglia per ritirare
"lu cuénzu", o palamito, l'attrezzatura
da pesca disposta in mare per la pesca di cernie, saraghi
e dentici nella zona a sud di Brindisi, tra Punta Cavallo
e Torre Mattarelle.
I tre fratelli Romanelli morti
nel naufragio
Quel tragico 26
novembre del 1950, la "Jolanda", una delle
barche della marineria brindisina, era uscita proprio
per riprendere a bordo i palamiti (conzo, coffa o palangaro),
la lunga e robusta lenza principale su cui sono montati
ad intervalli regolari una serie di braccioli più
sottili ognuno dei quali termina con uno o più
ami sui quali viene inserita l'esca, scelta in funzione
delle specie di pesce da catturare. È una tecnica
molta antica praticata soprattutto nel meridione: l'armamentario
veniva calato in mare solitamente la sera prima ed era
sorretto a galla, sui due estremi, da un galleggiate
di sughero con una bandierina per permetterne la localizzazione.
A bordo dell'imbarcazione c'erano i tre giovani fratelli
Romanelli, Teodoro (27 anni, prossimo
alle nozze), Salvatore (24 anni) e Benito
(14 anni), insieme a loro Teodoro Prudentino,
poco più di 30 anni, e Vincenzo Melpignano,
alias "Vicienzi ti Livia", il più grande
del gruppo. Era necessario recuperare le preziose attrezzature
da pesca, si rischiava di perderle con l'arrivo della
tempesta da sud-est. Ma il mare, si sa, non perdona
gli errori, e nel caso della Jolanda l'equipaggio si
attardò oltre il limite per raccogliere i palamiti,
una incredibile imprudenza che costò la vita
a quattro persone, disperse in mare e mai più
ritrovate.
Al centro Ugo Pinese, ultimo
testimone della tragedia, affianco a lui la moglie Angela
Rocchetto e Francesco Romanelli
"Nel pomeriggio
abbiamo visto avvicinare alla Jolanda un'altra motopesca
brindisina, era il Sant'Antonio - racconta Ugo
Pinese, classe 1937, l'ultimo testimone della tragedia
- i pescatori con ampi gesti consigliavano ai Romanelli
di fare presto e rientrare, visto il rapido avvicinarsi
del temporale. Dopo un po' il Sant'Antonio si mosse
per tornare nel porto di Brindisi, mentre l'altra barca
rimase ancora lì a tirare 'lu cuenzu', nonostante
il vento continuava ad aumentare d'intensità,
paurosamente. Dalla costa io e i miei parenti eravamo
seriamente preoccupati per loro, speravamo si avvicinassero
alla riva, ma così non fu. Poi giunse il buio
e non si vide più nulla". Ugo con la
sua famiglia abitava nell'ex faro-caserma della Guardia
di Finanza di Torre Mattarelle, poi demolita, che era
poco all'interno e in linea rispetto all'antica torre
di cui oggi restano solo poche vestigia nell'angolo
nord-ovest. Il loro gregge di pecore e capre era stato
oggetto, alcuni giorni prima, di un tentativo di furto,
pertanto c'era la massima allerta specialmente durante
le ore notturne. "Verso la mezzanotte i nostri
cani cominciarono ad abbaiare con insistenza, pensavamo
fossero tornati i ladri ed uscimmo per controllare
- ricorda il sig. Ugo con estrema lucidità e
ancora tanta emozione - il cane più vigile
e attento ci condusse a 5-600 metri più a sud,
sino ad una insenatura costiera prima di Cerano, qui
sentimmo delle disperate invocazioni di aiuto provenienti
dalla base della falesia, solo al ricordo mi tornano
tuttora i brividi. Ci affacciamo e con la luce di un
lume a petrolio riuscimmo a vedere un uomo adagiato
sulla riva, era nudo e impaurito, sarebbe morto di lì
a breve senza il nostro intervento. Lo rassicurammo,
e dopo aver preso da casa una lunga corda, tornammo
da lui portando anche il nostro cavallo; mio cognato
(Antonio Milazzo, un ex marinaio) preparò con
la cima una sorta di imbracatura, con questa scesi lungo
la scarpata e legai in sicurezza l'uomo, che quando
mi vide scoppiò in un pianto liberatorio. Era
Vincenzo Melpignano, l'unico superstite di quel dramma.
Mentre da una parte lo tiravano su lentamente con l'aiuto
del cavallo, io dall'altra mi impuntavo con i piedi
sulle rocce e tenevo teso l'altro capo della fune in
maniera da evitare che l'uomo, di corporatura robusta,
andasse a sbattere contro le pareti della falesia. Non
fu semplice, ma ci riuscimmo. Poi lo coprimmo con un
cappotto e lo portammo a casa a scaldarsi davanti alla
fiamma del camino, mio padre Ernesto volle fargli bere
un mix di acqua e olio per indurlo al vomito ed eliminare
la tanta acqua ingerita. Era esausto, visibilmente confuso,
balbettava, con i gesti ci indicava 'quattro', il numero
di persone che erano sulla barca insieme a lui. Poi
piano piano ci raccontò l'accaduto".
Il palamito (foto Renato Greco,
dal web)
La costa e la falesia tra Torre
Mattarelle e Cerano, dove avvenne la tragedia
Benito, il più
piccolo dei fratelli Romanelli, mentre recuperava e
avvolgeva il palamito nell'apposita cesta, venne travolto
da un'onda impetuosa e trascinato in mare, suo fratello
maggiore Teodoro, nel tentativo di salvarlo, cadde in
mare e scomparve tra i marosi; la barca intanto era
stata sospinta verso le pericolose risacche di Punta
della Contessa, dove lo sbalzo contrastante tra le correnti
marine e la mareggiata, la spezzarono in due parti,
Rino Prudentino venne subito ingoiato dal mare, Vincenzo
Melpignano e Salvatore Romanelli riuscirono a reggersi
all'albero della barca e a restare per qualche ora a
galla, sino a quando un'onda alta e forte li sospinse
violentemente contro gli scogli, il primo riuscì
ad aggrapparsi, lo sfortunato compagno invece venne
risucchiato nei gorghi e sospinto alla deriva, dove
morì affogato.
"Non avevamo il telefono in casa (ci venne installato
dalla Marina Militare solo dopo il tragico evento),
pertanto alle prime luce dell'alba con mio fratello
Giovanni andammo a piedi sino alle Sciabiche per portare
la notizia, ne parlammo con Cosimo Andriolo, persona
molto nota nel quartiere, fu lui a informare la famiglia
Romanelli della disgrazia; dopo alcune ore ci riaccompagnarono
a casa in auto con i vestiti per Vincenzo Melpignano".
L'albero della Jolanda è rimasto nel giardino
di casa Pinese per molto tempo, fu ritrovato anche una
parte del fasciame sovrapposto della barca, ma nessuno
di quei quattro corpi, rimasti sepolti per sempre in
fondo al mare. Sino a pochi anni fa in quel luogo, sulla
costa, c'era anche una croce con la lapide che ricordava
il tragico evento, qui i parenti delle vittime andavano
a pregare in occasione della ricorrenza.
Il Risorante Iaccato negli anni
'70
Il sindaco di Brindisi
volle riconoscere ad Ernesto Pinese un compenso
di diecimila lire per l'opera di salvataggio compiuta,
ad Antonio Romanelli, il padre dei ragazzi scomparsi
nella sciagura, fu permesso di aprire quello che per
sessant'anni è stato il famoso ristorante "Iaccato",
l'appellativo che racconta la sua abilità di
pesca "alla iacca" (di notte, con fiocina
e luce fluorescente). Chi visse nel perenne dolore fu
Elvira (Lisa) Natale, la madre dei tre giovani,
si racconta che per l'immenso strazio spesso correva
a mani aperte verso il mare e chiamava disperatamente
i figli, come a volerli trovare e riabbracciare. La
triste vicenda ispirò i testi della canzone composta
da Giuseppe Fiorelli e Mario Ruccione dal
titolo "e la barca tornò sola",
cantata quattro anni dopo al Festival di Sanremo da
Gino Latilla e Franco Ricci, il brano
si classificò al terzo posto, suscitando non
poco clamore proprio per il testo melodrammatico: "Mare!
Mare crudele! Come puoi cantare nelle notti scure quando
piange il cuore? [
] Erano tre fratelli
pescatori, con una mamma bianca, ed una barca nera e
con tre cuori ancora da creatura". Pare che
la tragicità dell'argomento provocò reazioni
contrastanti e negative nel pubblico radiofonico, al
cantante giunsero ben trecento lettere anonime di minacce.
Successivamente Renato Carosone ne realizzò
una versione dissacrante e parodistica, nella quale
il testo originale conviveva con un noncurante "e
a me che me ne importa?" ripetuto alla fine
di ogni strofa. Anche Vinicio Capossela nel 2011
incise un medley che richiamava la tragedia brindisina.
Si ringrazia per
la collaborazione Angela Rocchetto, Mimmo Summa e Franco
Romanelli
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n. 251 del 20/5/2022
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