LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
L'OCCLUSIONE
DEL PORTO
il più grande disastro ambientale della
storia di Brindisi
Nel 59 a.C. Giulio Cesare ostruì
il canale d’ingresso al porto interno,
che poi venne del tutto chiuso nel XV secolo
dal principe Orsini de Balzo e dai veneziani,
con effetti devastanti sulla città
Durante la sua storia millenaria,
Brindisi ha sofferto di numerose calamità
naturali, soprattutto terremoti e pestilenze,
subendo ripetutamente pesanti ripercussioni
economiche e sociali.
Ma gli eventi che causarono il principale disastro
ambientale della nostra città, le cui
conseguenzesi sarebbero fatte sentire drammaticamente
nei secoli successivi, sono quelli che resero
inaccessibile il porto interno, riducendolo
ad un’insalubre palude. Una tremenda sciagura
provocata dall’imperizia delle gerarchie
politiche e militari, con effetti devastanti
sul piano finanziario e sulla salute degli abitanti.
Andrea Palladio, Assedio
di Cesare a Pompeo. 1619
Il destino della città
è strettamente legato alle vicende del
suo porto naturale, la posizione geografica
e l’esclusiva conformazione morfologica
lo hanno reso, sin dai tempi antichi, un approdo
di grande rilevanza strategica sulle rotte di
navigazione dell’intero Mediterraneo,
da sempre considerato lo scalo più sicuro
del basso Adriatico e teatro di avvenimenti
storici di particolare importanza.
Una prima occlusione al canale d’ingresso
del bacino portuale interno fu apportata nel
marzo del 49 a.C. da Giulio Cesare,nel
vano tentativo di impedire la fuga del rivale
Pompeo. Il generale, conquistata la Gallia,
entrò in disaccordo con il senato della
Repubblica e decise di varcare il fiume Rubicone
pronunciando la fatidica frase “alea iacta
est” (“il dado è tratto”),
sfidando apertamente il console romano Gneo
Pompeo Magno, che gli aveva ordinato
di sciogliere l’esercito e tornare a Roma
da privato cittadino, rinunciando all’immunità,
una evidente trappola per farlo escludere dalla
vita politica della città eterna. L’avanzata
di Cesare lungo la costa adriatica avvenne senza
grosse difficoltà, tutti i nemici furono
sconfitti; Pompeo, intimorito dalle vittorie
dell’avversario, decise di rifugiarsi
a Brindisi, porto d’imbarco per quell’oriente
a lui fedele, dove rimase con venti coorti,
facendo partire il resto dell’esercito.
Qui venne raggiunto da Giulio Cesare, ma questi,
non potendo permettersi un assedio alla città
o una battaglia al suo interno, decise di impedire
la fuga via mare ai pompeiani e al loro console
cercando di chiudere l’uscita del porto,
ostruendo il passaggio tra le sponde più
ravvicinate, proprio in corrispondenza dell’attuale
Canale Pigonati. In acqua furono gettati massi
e pietre cavate dalle colline in prossimità
dell’imboccatura, un’opera che richiedeva
un grande impegno e notevole tempo, sotto una
pioggia incessante di frecce e dardi lanciati
dall’interno della città. Venne
creato un molo su entrambi i litorali, mentre
al centro, dove la profondità del mare
era maggiore, si progettò di collocare,
in continuazione della diga, coppie di zattere
della lunghezza di trenta piedi ciascuna, fissate
con quattro ancore per evitare che venissero
spostate dai flutti. Una volta completate e
messe al loro posto, se ne aggiunsero altre
riempite di terra e di altro materiale, così
da poterci passare sopra. Sul lato frontale
del molo fu elevata una barriera di protezione
con palizzate, mentre sopra ogni quarta zattera
venne innalzata una torre di due piani utile
ad una migliore difesa contro l'abbordaggio
e i tentativi di incendio.
Dopo nove giorni di lavori si era giunti a circa
metà dell’opera, quando fecero
ritorno le navi che avevano trasportato la prima
parte dell’esercito di Pompeo a oriente;
il console decise così di organizzare
la sua fuga via mare prima della chiusura totale
del canale, il tutto si svolse nel silenzio
della notte, forse fu lo stesso Cesare a lasciarli
andare per allontanare il rivale dall’Italia.
Pompeo, prima di partire, aveva ordinato la
muratura delle porte della città e lo
scavo di fossi nelle strade principali, dove
furono conficcati dei pali appuntiti occultati
da graticci e terra, una trappola per i soldati
di Cesare che poi dovevano inseguire i fuggitivi.
Furono gli abitanti di Brindisi, apertamente
schierati con i cesariani, a segnalare i pericoli
nascosti ai militari in procinto di varcare
le mura, che poi vennero guidati e fatti entrare
in città dopo un lungo giro.
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Giulio
Cesare |
Giovanni
Antonio Orsini del Balzo |
Effetti ancor più devastanti
furono causati dalle due tartane zavorrate che
il principe di Taranto, Giovanni Antonio
Orsini del Balzo, fece affondare nello
stesso luogo nel 1449, probabilmente per timore
che i veneziani s’impadronissero di Brindisi,
una preoccupazione fondata visto il reale proposito
della repubblica serenissima di servirsi del
“suo magnifico porto”.
Memore di quanto già avvenuto a Siracusa,
dove vennero bruciate ben 47 navi, e da dove
partì la devastazione delle coste siciliane,
il principe viveva con grande angoscia un possibile
attacco della flotta veneziana, sapeva di non
avere forze sufficienti per fronteggiare il
nemico e per proteggere la città, che
oltretutto era sprovvista di mura difensive
dalla parte del mare. Decise così di
affondare un bastimento carico di pietrame,
chiudendo il canale dell’imboccatura del
porto che era, sino ad allora, protetto da una
catena (oggi custodita nel Castello Svevo) assicurata
alle due torrette situate sulle sponde opposte.
In questo modo fu facile e poco costoso occludere
quasi totalmente il passaggio, reso possibile
solamente alle piccole imbarcazioni.
L’opera inconsulta eseguita dall’Orsini
fu “naturalmente malveduta dalla città,
la quale prevedeva tristi conseguenze”,
scrisse Ferrando Ascoli nel
1886, infatti negli anni seguenti completarono
l’azione di soffocamento del porto interno
le sabbie e il limo provenienti dalle paludi
circostanti e quelle portate dalle maree, le
alghe che si riproducevano numerose nelle acque
stagnanti e i residui di ogni natura che venivano
fatti defluire liberamente dalla città,
le naturali insenature di levante e di ponente
vennero così trasformate in un acquitrino
salmastro, separato dall’esterno e impraticabile
al traffico marittimo. L’intasamento provocò
danni enormi all’economia cittadina per
i successivi tre secoli, e divenne la causa
scatenante di forme gravi di malaria e conseguente
mortalità rilevante degli abitanti, costretti
ad un'esistenza dolorosa e di estrema povertà.
Il Canale Pigonati
Ci pensarono i veneziani,
durante i tredici anni di dominazione (1496
– 1509), ad ostruire ancor di più
il porto, affondandovi altri bastimenti carichi
di pietrame per bloccare ogni ulteriore passaggio
verso l’interno. Decisero di tenere in
funzione il solo porto medio, più o meno
in corrispondenza dell’attuale località
tra Fontanelle e Marimisti, dove per secoli
sono stati costretti ad ormeggiare i velieri
di medio e grosso tonnellaggio, impossibilitati
ad avvicinarsi al centro abitato per la scarsa
profondità dei fondali e per l’intasamento
del canale d’ingresso.
Il Canale Pigonati
I lavori di riapertura del
porto furono avviati solo nel 1776, grazie all’interessamento
del re Ferdinando IV di Borbone, le bonifiche
vennero affidate ad Andrea Pigonati prima, e
agli ingegneri Carlo Pollio e Carlo Forte poi.
Gli scarsi risultati portarono a stanziate ulteriori
ed ingenti somme per nuovi interventi di sistemazione
voluti da Ferdinando II nel 1843, opere che
furono completate solo dopo l’unità
d’Italia.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.153 del 19/6/2020
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