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LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA

Rosario Mascia
Diario di viaggio della Valigia delle Indie
Parte seconda: Attraversamento della Turchia - verso le steppe dell'Anatolia

Il traffico lungo la strada per Istanbul è velocissimo e l'attenzione è al massimo viste le spericolate manovre nelle quali i turchi si esibiscono. In compenso il paesaggio in questo tratto di costa è molto bello, punteggiato da piccoli villaggi estivi quasi attaccati l'uno all'altro, con le casette ad uno o due piani dipinte a tenui colori pastello esaltati dal sole del tramonto. Sono entrato nella Tracia orientale della Turchia, quella sulla sponda europea, la parte più piccola divisa da quella asiatica dallo Stretto dei Dardanelli, dal Mar di Marmara e dal Bosforo. Quando mi fermo a fare benzina è impressionante vedere scorrere sul display le cifre a sei zeri di un'inflazione che fa diminuire ogni giorno il valore della lira turca, la "libra turca" dell'impero ottomano, nei confronti del dollaro e dell'euro che anche qui ha ormai soppiantato il biglietto verde.

"Cercheremo di venirle incontro con una nota verbale che presenterà unita al passaporto al consolato iraniano" mi dice il dottor Sergio Mitaridonna, uno degli attachè del consolato italiano. Quattro giorni più tardi ottengo un visto di transito di soli cinque giorni con il suggerimento di richiedere la sua proroga una volta giunto a Teheran.
Nell'attesa, Umit, un amico cultore della storia patria, mi ha fatto da cicerone tra i minareti di Sultan Ahmet, Ayasofia e Suleymaniye che si stagliano contro un cielo azzurro, stranamente luminoso in questi giorni, di Istanbul il cui tasso di inquinamento è uno dei più altri del mondo. L'antica Bisanzio, la Costantinopoli dell'Orient Express e del Pera Palas, oggi tesa verso il consumismo e la modernità in vista di un probabile ingresso nell'Unione Europea, è indissolubilmente legata al Corno d'Oro ed al Bosforo, o Istanbul Bogazi come lo chiamano i turchi, un tratto di mare inquinato, maleodorante, solcato ogni giorno da decine di navi cargo e petroliere, con un alto rischio di una catastrofe ecologica senza che il governo possa intervenire direttamente, almeno in via ufficiale. La navigazione nello stretto è infatti regolata da un trattato internazionale. Una città che risveglia voluttuose morbosità di intrighi, misteri, assassinii e guerre segrete. Quanto sangue è stato versato all'interno delle corti e delle segrete degli stupendi palazzi che ne circondano le rive, quante urla soffocate, quante disgrazie.

Lascio le vestigia di Costantinopoli diregendomi "Oltre l'acqua" come dicono i turchi, per indicare la terra al di là del Bosforo, che per un breve tratto è ancora Tracia orientale alla quale segue il vasto altipiano arido e spoglio dell'Anatolia, dove il vento trascina via per chilometri le balle d'erba nelle steppe ondulate interrotte da catene montagnose che nascondono fertili vallate, dove nascono i due maggiori fiumi di quella che un tempo veniva definita la Mesopotamia: il Tigri e l'Eufrate. Una regione di una bellezza selvaggia, aspra, dove non è raro incontrare orsi e lupi, nemici dei pastori e delle loro greggi cui fanno da scorta i feroci Kangal, cani da guardia oggi protetti dal governo e dove è bene avere sempre il serbatoio pieno e l'auto in ordine ma "Himalaya" finora non ha dato cenni di cedimento. Sono tranquillo.

Il caldo soffocante dell'Anatolia centro settentrionale è appena mitigato dalla frescura che incontro giungendo a Safranbolu, una città nascosta tra le colline, nel XVII secolo importante nodo commerciale lungo la via da Gerende al Mar Nero. La sua popolazione era composta per un quarto da greci ottomani costretti al rimpatrio forzato dopo la grande guerra, la cui chiesa principale dedicata a Santo Stefano è stata dai musulmani trasformata nell'Ulu Cami, la grande moschea. La città vecchia, chiamata "Carsi" -mercato-, è costruita a ridosso della parete di una collina dove confluiscono tre vallate riparate dai venti, un'area abitata dai ricchi mercanti di entrambe le etnie che d'estate si trasferivano nelle ville tra i vigneti di Baglar e che ha conservato integre molte antiche case ottomane, dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, all'interno delle quali sono ancora ottimamente conservate delle grandi piscine usate solo per rinfrescare gli ambienti.
Lascio la fresca Safranbolu per ritornare sulla pianura, lungo una buona strada asfaltata sulla quale la curiosità è attratta da una vecchia e scalcinata motocicletta con annesso sidecar, l'unico mezzo di locomozione di una famigliola che quando ci separiamo mi saluta offrendomi una forma di pane rotondo, pesante e freddo. E' il dono dell'amicizia e sono impacciato non avendo nulla con cui contraccambiare.
Il corso dello Yesilirmak, il fiume verde, mi guida sino alla pittoresca Amasya, costruita lungo le sue rive in una stretta gola di una valle montana che la isola dal resto dell'Anatolia. Le tombe dei re del Ponto sulla collina che la domina ne costituiscono la principale attrazione turistica insieme alle case ottomane in legno e mattoni costruite lungo il fiume e perfettamente restaurate. Durante l'impero ottomano Amasya fu una importante base militare per le campagne contro i persiani e da ciò nacque la tradizione che l'erede al trono doveva imparare l'arte di governare dando prova delle sue capacità amministrando questa provincia ma la città è cara ai turchi perché Ataturk si rifugiò proprio qui per pianificare la lotta per l'indipendenza.
Amasya era anche nota nel secolo scorso per essere uno dei maggiori centri teologico dell'Islam con le sue diciotto medresse, le scuole coraniche che ospitavano duemila studenti. Oggi l'unico seminario attivo è quello nella Buyuk Aga Medresesi, costruita nel 1448 dall'eunuco bianco Huseyin Aga, dove riesco ad entrare per scattare alcune foto ai giovani seminaristi seduti sotto il porticato del cortile e ad alcuni chini sul Corano all'interno della moschea.

La pianura è alle spalle e con mi inoltro nell'Anatolia orientale, dove le strade fanno sentire l'aprezza delle montagne ma in compenso la calura diventa più sopportabile, specialmente lungo i 65 chilometri della ciottolosa strada panoramica, in realtà una mulattiera lungo la quale le sospensioni di "Himalaya" sono messe alla prova, che attraversa le foreste puntanto su Kemah nei cui pressi cerco invano le sorgenti del Firat Neri, l'Eufrate. Scoprirò poi che il fiume non nasce da una sorgente ma prende il nome quando è già' un corso d'acqua formato dalla confluenza di più affluenti.

L'Agri Dagi, il monte Ararat con le sue nevi perenni e la misteriosa Arca, che la leggenda vuole nascosta in uno dei suoi ghiacciai, domina Dogubayazit, una polverosa cittadina nel nord del Kurdistan turco, a trentacinque chilometri dalla frontiera con l'Iran, il cui sindaco Mukaddes Kubilay è una delle tre donne curde elette nella cosultazione del 1999 con ambiziosi programmi di rilancio commerciale e turistico per questo covo di spie e contrabbandieri di petrolio e droga. La presenza dell'esercito di Ankara è massiccia e di notte è bene non allontanarsi per evitare di essere fermati dai posti di blocco o dalle pattuglie che percorrono incessantemente le strade che di notte diventano una zona franca per tutti i traffici illeciti.
Quando mi inoltro con "Himalaya" ed alcuni amici nella vasta pianura di pietre vulcaniche e sterpi seccate dal sole verso la montagna, due uomini ci raggiungono in auto avvisandoci di non proseguire perché siamo già in zona militare. L'Arca dovrà attendere spedizioni meglio attrezzate ma a venti chilometri, su una collina, è possibile vedere un'impronta nel suolo che secondo alcuni è quella della vera nave di Noè, un reperto riconosciuto ufficialmente anche dal governo turco.

foto nel testo (dall'alto in basso)
Turchia, Safranbolu
Turchia, Istanbul, Himalaya davanti a Sultanahmet

Parte Terza: Iran - in viaggio con Mahamad

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