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LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA

Rosario Mascia
Diario di viaggio della Valigia delle Indie
Parte terza: Iran - in viaggio con Mahamad

Lascio Dogubayazit all'alba in compagnia di Paolo ed Enrica Fontana, due motociclisti che con una Honda Vanadero sono diretti in Australia per coronare anch'essi un sogno. Al posto di confine turco di Gurbulak i doganieri scoprono che i colleghi di Kipi non mi hanno rilasciato un documento ad uso interno: non posso lasciare il paese. Dopo quattro ore di attesa, con "Himalaya" che arrostisce al sole, comprensive di un paio per la siesta e diplomatiche considerazioni sull'ingresso della Turchia in Europa, giunge finalmente via telefono il riconoscimento dell'errore ed il sospirato via libera.
Varcato il cancello che delimita il confine tra i due stati il telefonino non riceve più il segnale. E' quasi un presagio. In Iran saremo completamente isolati e potremo comunicare con l'estero solo in alcuni uffici dotati di internet con una scheda internazionale. I doganieri iraniani sbrigano molto velocemente le nostre pratiche e mentre attendo un soldato, od ufficiale, mi fa il terzo grado. Rispondo che non mi occupo di politica e che sono interessato solo alla cultura ed all'arte, ed è la verità. Non posso e non voglio rischiare di occuparmi di faccende politiche e mettere a repentaglio il viaggio.
Riprendiamo la strada lungo un nastro d'asfalto che non ha nulla da invidiare alle nostre superstrade, con due situazioni di pericolo sempre presenti: la sabbia spinta dal vento sulla carreggiata e la guida troppo naif degli iraniani. Il clima è molto secco ed anche se la temperatura nell'auto è di 40 gradi, pochi in meno all'esterno dove la moto di Paolo procede a velocità moderata, si riesce a viaggiare bene durante le prime ore del giorno ed al tramonto. Sino a Teheran, dove poi ci separeremo, di giorno sarà lui a precedermi mentre la notte sarò io a fare da apripista con i miei quattro fari. E' un percorso molto monotono. La strada si inoltra nel deserto senza che vi siano vestigia storiche da poter ammirare, ai lati talvolta alcune oasi punteggiano il panorama di macchie verdi che spiccano sull'ocra delle campagne dove è stato da poco effettuato il raccolto. Il terreno è arido ma sembra che l'acqua non manchi a giudicare i pozzi e le fontanelle che incrociamo dalle quali sgorgano rivoli del prezioso liquido.
Il mio visto è valido solo per cinque giorni e non posso rischiare di sostare in molti luoghi prima di giungere a Teheran. Nonostante la stanchezza e la tensione della guida, specialmente per gli abbaglianti che qui sostituiscono tutte le altre luci, decidiamo con rammarico di saltare la sosta a Tabriz e di proseguire sino a Zanjan, il maggior centro iraniano nella fabbricazione dei coltelli, dove troviamo facilmente alloggio nonostante l'ora tarda. Alle prime luci dell'alba siamo già in viaggio. Teheran dista circa cinquecento chilometri ma richiederanno un intero giorno: impossibile per Paolo condurre la moto senza sostare diverse volte ed anch'io, viaggiando da solo, accuso ben presto molta stanchezza. L'autostrada verso la capitale è monotona, interrotta solo da alcuni cartelli che invitano gli automobilisti ad allacciarsi le cinture di sicurezza. In cento chilometri Incrociamo solo una trentina di auto e di queste la maggior parte sono autentici pezzi di antiquariato: Chevolet, Dodge, Ford risalenti all'epoca dello Scià. Gli automobilisti rispondono col clacson al nostro saluto, molti lo suonano per primi e tutti ci sorridono. Sono gli unici momenti in cui non si avverte il caldo, che continua ad aumentare perché ci inoltriamo nell'interno del paese, e la tensione della guida.


Deserto del Balochistan iraniano

Ad una trentina di chilometri da Teheran la periferia è un grande alveare di casermoni come si vedono nelle nostre città, molti sono privi del rivestimento. Il traffico aumenta diventando congestionato ed impazzito e dobbiamo guidare all'iraniana schivando i pazzi che tranquillamente invadono la nostra corsia ed anche noi, entrati in città, siamo impossibilitati ad invertire il senso di marcia e per lunghi tratti camminiamo col tacito assenso della polizia. Un paio di ore dopo ci separiamo dirigendoci verso i nostri alberghi che non sono eccessivamente distanti. La doccia dell'Hotel Naderi scorre a lungo sul mio corpo ripulendomi dalla polvere e dal sudore.
Nella capitale chiedo aiuto alla nostra ambasciata per ottenere il rinnovo del visto ma sia il Ministero della Cultura, competente per il suo rilascio ai giornalisti, che quello degli Esteri, me lo rifiutano. Ho circa 30 ore di tempo per lasciare il paese, pena l'arresto. In ambasciata sembrano piu' preoccupati e mi consigliano di ritornare in Turchia il cui confine dista "solo" un migliaio di chilometri e, secondo loro, potrei essere in grado di farcela guidando ininterrottamente per ventiquattro ore, e da lì proseguire sini ad istanbul, prendere un nuovo visto e ritornare indietro. E' pazzesco! Vedo il mio sogno infrangersi contro tutte le ottuse burocrazie. Lascio l'ambasciata con una lettera nella quale, mi informano ufficialmente delle conseguenze cui vado incontro se saro' ancora nel paese allo scadere del visto. Hanno anche telefonato all'ufficio stampa della Farnesina avvisando del mio probabile arresto.
La fortuna sembra sorridermi. Paolo ed Enrica, informati di quanto sta accadendo, si attivano nel loro albergo per trovare una soluzione il cui nome è Mohamad, un autista iraniano che per 250 dollari accetta di trasportarmi sino alla frontiera. Alle dieci di sera, non senza commozione, lasciamo l'albergo dei miei amici e cominciamo il lungo viaggio attraverso il deserto del Belochistan iraniano. Il vento della notte entra dai finestrini abbassati regalandoci un pò di refrigerio tanto che, reclinato il sedile, riesco a schiacciare un pisolino mentre Mohamad guida con sicurezza "Himalaya". Alle prime luci dell'alba la temperatura aumenta rapidamente tanto che alle nove il termometro registra all'interno 50 gradi e noi adottiamo tutte le tecniche che possono darci refrigerio. Le fermate sono pochissime, giusto il tempo per fare benzina, acquistare bottiglie di acqua ed un pò di cibo. Mi sarebbe stato impossibile guidare da solo per più di duemila chilometri lungo strade con la segnaletica in farsi, attraversando cittadine dove lo stesso Mohamad è stato costretto a chiedere informazioni, impossibilitato a comunicare con la popolazione poiché nell'interno pochi lo conoscono ed avrei perso tempo prezioso a cercare qualche albergo dove farmi indicare la strada, ed in più privo dell'uso del cellulare.

A 50 chilometri dal posto di frontiera di Mirjiavé, alle otto di sera, Mohamad si rifiuta di andare oltre. Mi chiede di proseguire da solo mentre lui rientra a Tehran, dalla mamma e dalla moglie. Sono fuori di me. Il visto mi scade a mezzanotte ed a nulla valgono le discussioni né il fatto che lo abbia pagato in anticipo. Solo quando la minaccia del mio coltello da caccia, che mi accompagna in tutti i miei viaggi, lo induce tra grandi mugugni, ad onorare l'impegno preso e proseguire. Un'ora e mezzo più tardi "Himalaya" si ferma davanti alla sbarra di confine abbassata. La frontiera è chiusa! Neanche l'ambasciata italiana era informata che il transito è consentito solo sino alle tre e mezzo del pomeriggio. Uno dei quattro giovani soldati di guardia, tutti con la barba nera e lunga di qualche giorno e divisa trasandata, mi sputa sui piedi minacciandoci col mitra e cacciandoci. Spero che Mohamed non racconti loro che ho un coltello ma, per mia fortuna, e' troppo vigliacco per farlo. Mentre cerchimo invano un posto di polizia dove dichiarare il mio arrivo, incontriamo il dottor Shahir Mohana, un medico del locale ospedale, il quale accompagna Mohamad alla stazione dei bus ed il sottoscritto in un alberghetto di un suo amico. Eè il medico della guarnigione e mi promette che l'indomani risolvera' la situazione. Mantiene l'impegno e alle 9 del giorno tutto lo staff dell'ospedale mi accompagna alla frontiera che passo un'ora piu' tardi. Sono in Pakistan.

Parte quarta: Pakistan

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