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LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA

Rosario Mascia
Diario di viaggio della Valigia delle Indie
Parte quinta: India

Il controllo alla dogana indiana, nonostante i sorrisi, è molto professionale e piuttosto lungo. Forse i doganieri hanno tempo e curiosità da spendere anche perché sono l'unico turista e motorizzato per giunta. Mi fanno scaricare tutto il bagaglio nel quale rovistano alla ricerca di non so che cosa. Probabilmente, visto che provengo dal Pakistan, cercano droga.
Il Punjab, dove sono appena entrato, mi accoglie con la sua natura immersa nel verde ma questo non basta a cancellare il ricordo del sangue versato su questa terra. La partizione dell'India nel 1948 lo tagliò in due facendovi transitare in uno scambio forzato le popolazioni hindi e musulmane, qualche milione di profughi che in ventiquattrore dovettero trasferirsi sull'altro versante lasciando tutti i loro beni mentre i treni giungevano nelle stazioni carichi di cadaveri, con a volte il macchinista unico sopravvissuto. Poi venne il massacro dei Sikh, l'etnia di maggioranza dello stato, ordinato da Indira Gandhi nel Tempio d'Oro, il luogo più sacro per questo popolo. Ma nonostante le sventure è oggi uno degli stati più ricchi dell'Unione Indiana con un reddito doppio rispetto alla media del paese, merito della laboriosità dei Sikh, molti dei quali hanno studiato nelle università britanniche, ed è anche lo stato dove vi è il più alto consumo di alcolici.
(foto sopra: India, Rajasthan)

Ad Amritsar, la capitale, mi fermo il tempo necessario per pranzare rimandando la visita al Tempio d'oro al prossimo viaggio in India. Ho fretta di giungere al villaggio di McLeod Gani, sulle montagne dell'Himachal Pradesh, dove mi attendono gli amici tibetani, A tratti piove, come mi aspettavo. Anche qui il tempo da qualche anno è cambiato ed il monsone tarda a lasciare le verdi vallate e le montagne. Quando la strada comincia ad inerpicarsi tra i contrafforti dell'Himalaya, la pavimentazione da ottima diventa pessima, tutta buche e crepacci che rallentano moltissimo la velocità e rendono pericolosa la guida, specialmente di notte. E' colpa dei monsoni che con le lore piogge torrenziali fanno franare le pendici montane ed a nulla valgono le riprazioni: sono solo toppe che il prossimo acquazzone spazzerà via. Lungo la strada ritrovo pochi punti di riferimento, sono sorti nuovi villaggi, i vecchi sono stati ampliati, nuovi negozi hanno sostituito quelli dove ero solito fermarmi ed anche qui è giunto lo sforzo di modernizzazione di Delhi: su una cima svetta un ripetitore garantendo la copertura del cellulare.
Alle dieci e mezzo di sera, sotto una pioggerella sottile, McLeod Ganj è già addormentata. Qualche branco di cani randagi, qualche insegna luminosa dei botteghini di nuovi punti telefonici ed internet, radi tibetani per le strade ed ancor più radi occidentali. Nick, il proprietario dell'omonimo ristorante, dove si gustano degli ottimi piatti italiani, mi accoglie calorosamente e prepara per me una tazza di caldo "chaj". Ne avevo bisogno.
Trascorrerò i giorni in vecchia compagnia e Lobsang Wangyal, il locale corrispondente dell'agenzia France Presse, si attiva per pubblicizzare la mia avventura spedendo alla sede di Delhi un articolo su di me e delle belle foto. Per il mio commiato, dieci giorni più tardi, Lobsang organizza a casa sua una cena tibetana alla quale aggiungo le ultime buste di risotto alla milanese che ho portato dall'Italia. Lascio McLeod Ganj in compagnia di Lacky, una giovane tibetana che insegna inglese ai bambini tibetani di Majnu ka Tilla alla periferia nord di Delhi.
La mia nuova tappa è la casa di Raaj, un ex capitano dell'esercito indiano col quale sono in contatto da più di un anno e che mi ha invitato ad alloggiare presso di lui. In comune abbiamo la passione per i viaggi che Raaj ha trasformato in lavoro organizzando raids con moto e jeeps nel deserto del Rajasthan e sulle montagne dell'Himalaya. La sua abitazione, in un quartiere residenziale di Delhi, è per me un'occasione per conoscere da vicino la quotidianità di una casa indiana anche se, essendo Raaj uno scapolo impenitente, non vivrò l'atmosfera di una famiglia ma il mio ospite ed i suoi amici saranno prodighi di informazioni.

Riparto che il monsone è ancora in attività. "Himalaya" durante tutto questo cammino non ha manifestato segni di stanchezza ma la sottile pioggia indiana che cade per giorni ha invece prodotto in me un senso di insofferenza verso questa umidità che penetra nelle ossa. Della stessa opinione è Fredrik, un giovane fotografo svedese che mi accompagnerà sino alla méta con l'intento di fare alcuni servizi fotografici lungo la strada. Purtroppo le previsioni meteo non sono buone: troveremo pioggia lungo il percorso ed a Bombay. (foto a lato: India, Ajmer)

Jaipur, nella terra dei Raja, è una delle méte turistiche più gettonate dell'intera India. Quando sostiamo per chiedere informazioni, veniamo circondati da un gruppo di indiani che in un fluente italiano mi chiedono notizie sul viaggio. Sono commercianti che hanno vissuto a lungo in città del nord Italia con le quali mantengono rapporti commerciali spedendo manufatti dell'artigianato locale. Accanto a loro alcuni uomini vestiti di bianco con vistosi turbanti rossi si offrono per deliziarci con la danza dei loro cobra che tengono riposti in un sacco di tela bianca. Sono membri di una tribù di zingari le cui donne danzano per le comitive di turisti mentre gli uomini, oltre ad esibirsi come incantatori di serpenti, sono anche cacciatori di rettili e vengono spesso chiamati quando in una casa si scopre un ospite non invitato.
L'autostrada verso sud ci porta a Pushkar, ai margini del deserto, importante centro di pellegrinaggio per gli hindu, dove però il nastro asfaltato sorre lontano dal deserto impedendoci di avvicinarci ai cammelli che nella Camel Fair di novembre, la fiera del bestiame, sono l'attrazione principale. Continua a piovere e la velocità deve essere necessariamente ridotta non solo per l'asfalto bagnato ma anche per i "break speed", i cordoli costruiti trasversalmente lungo la strada per frenare gli eccessi di velocità, pericolosissimi perché taluni sono alti anche trenta centimetri, non sono verniciati con le classiche strisce gialle e si confondono con l'asfalto per cui li si vede solo quando sono troppo vicini per tentare di rallentare. Su uno di questi, superato a settanta all'ora, "Himalaya" spicca letteralmente il volo atterrando sulle quattro ruote e per nostra fortuna senza alcuna conseguenza. Né io né Fredrik, che vigila per indicarmi eventuali ostacoli, lo avevamo visto.
Il mio compagno di viaggio mi lascia ad Udaipur per rientrare a Delhi dove deve terminare il suo stage presso la Reuter e proseguo da solo lungo strade che sono tutte un cantiere. La viabilità in tutto il paese è in costante potenziamento e mentre diversi cartelli porgono le scuse delll'amministrazione agli automobilisti per i rallentamenti ed i disagi, altri penzolanti dai nuovi ponti ricordando con il volto del primo ministro Vajpayee gli sforzi del governo del Bjp per rendere l'India un paese moderno.

Il paesaggio comincia a mutare man mano che mi inoltro nello stato del Gujarat e poi in quello del Maharashtra. Il deserto, le montagne, la polvere che penetra ovunque vengono gradualmente sostituiti con il verde intenso dei campi e della vegetazione che ammanta le colline. Il traffico diviene man mano più convulso mentre mi avvicino alla costa del Mare Arabico che in alcuni punti è parallela alla strada. Dense nuvole grigie cariche di pioggia sembrano sorgere dal mare e dalla nebbilina che vi aleggia dalla quale spuntano alti piloni di energia elettrica.
Alle otto di sera di un piovigginoso 22 settembre 2003 giungo alla periferia di Bombay, oggi ribattezzata Mumbay, il maggiore centro finanziario ed industriale del continente ed una delle città più popolose con i suoi sedici milioni di abitanti, quelli ufficialmente censiti. Chiamata dai portoghesi Bombaim "buona baia", divenne Bombay durante la dominazione britannica e nel gennaio del 1996, con l'arrivo al potere dei membri del partito Shiv Sena, ha ripreso l'antico nome in lingua maratha, un ritorno alle origini culturali ed un definitivo affrancamento dalla dominazione coloniale.
(foto sopra l'arrivo a Bombay)

Dopo sessantadue giorni dalla partenza da Brindisi la Valigia delle Indie vi approda nuovamente. Un'avventura che per molti versi non è stata dissimile da quella di Thomas Waghorn ed il cui consuntivo è stato l'apprezzamento rivoltomi da un uomo che mi si è avvicinato mentre ero seduto in un bar: "Ma tu non sei il postman, l'uomo che ha portato l'India Mail da Londra?" mi dice "Ho visto la tua foto sul Bombay Times."

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Il resoconto del viaggio di Rosario Mascia che nel 2003 ha percorso lo stesso tragitto, via terra su un fuoristrada, con 170 buste filateliche commemorative della Valigia delle Indie

 

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