LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
BRINDISI DEL
1890 VISTA DALLO DALLO SCRITTORE FRANCESE PAUL BOURGET
Il noto romanziere sostò in città il 19
novembre e rimase particolarmente colpito dalle infelici
condizioni dei forzati rinchiusi nel Bagno Penale del
Castello Svevo
Alla fine dell’Ottocento
numerosi viaggiatori europei, che da oltre un secolo
venivano attratti dalle bellezze e dalla cultura italica,
scoprirono e si spinsero a conoscere anche la Puglia,
muovendosi sino al Salento. Alle principali destinazioni
sino ad allora preferite, Roma e la Toscana su tutte,
si inserirono man mano nuove mete del meridione d’Italia,
in primis Napoli, accreditata all’epoca come una
delle città più importanti d’Europa,
e le vicine Pompei ed Ercolano. Gli itinerari di viaggio
si allargarono lentamente includendo altre città
e regioni del Sud ricche di testimonianze storico-artistiche,
come la Sicilia e la Puglia, dove scienziati, artisti
e letterati si lasciarono affascinare da ogni aspetto
dei luoghi visitati: oltre a raccogliere informazioni
utili ai loro studi, guardarono con attenzione le bellezze
naturali e i costumi della gente, descrivendo il tutto
in appassionanti memorie di viaggio, opere letterarie
ricche di dettagli e di interessanti considerazioni
sulla complessa e contraddittoria realtà popolare.
Lo scrittore francese Paul Bourget
(1852 - 1935)
Tra i nomi più
importanti c’è quello dello scrittore e
saggista francese Paul Bourget, candidato
ben cinque volte al Premio Nobel per la letteratura,
divenuto poi membro dell'Académie française.
Il noto intellettuale transalpino, riconosciuto come
personalità “di solida cultura”
e“di gusto raffinatissimo”, tra
l'ottobre ed il dicembre del 1890 percorse il Salento
e lo descrisse con grande sensibilità “penetrando
nel vivo delle cose”. Grazie alle sue brillanti
intuizioni da viaggiatore illuminato riuscì a
scoprire, nei luoghi più remoti del nostro territorio,alcuni
“momenti di serenità sostenuti dalla
luce della tradizione”, soffermandosi sugli
aspetti più romantici e pittoreschi della nostra
regione. Le descrizioni dei luoghi, delle persone e
dei contesti sono “sensazioni”
percepite e condizionate dalla storia dei luoghi e dalle
architetture del passato, arricchite dalla capacità
di cogliere i valori interiori del popolo e delle loro
superstizioni.
Grande appassionato
dell’Italia, si considerava senese di adozione,
Bourget tra il 15 e il 28 novembre del 1890 visitò
la Puglia, giungendo a Foggia in treno da Ancona, dopo
aver visitato la Toscana, l’Umbria e le Marche,
prima di proseguire per Metaponto, Crotone e Reggio
Calabria. Della sua lunga ed interessante escursione
autunnale nella penisola, accompagnato dalla giovane
sposa Minnnie David, ci rimane l’opera
di notevole rilevanza letteraria e critica “Sensations
d’Italie”, il suo diario di viaggio
pubblicato l'anno successivo a Parigi, un volume successivamente
tradotto in italiano perdendo però, secondo l’opinione
di alcuni studiosi, gran parte del suo fascino.
Dopo Foggia, Lucera e Bari, Bourget si ferma a Brindisi
solo per un giorno, il 19 novembre, prima di proseguire
per "la bianca Lecce", dove sosta
dal 20 al 24, e Taranto (dal 26 al 28). Della nostra
città il colto poeta e “romanziere
psicologico” francese ben conosce l’importanza
storica, per questo decise di visitarla prima di proseguire
per il capoluogo della Terra d’Otranto, ma la
vede come una “città dalle vie tortuose,
dalle case mal costruite, che non vive che dal suo porto
e per il suo porto”, in effetti Brindisi
in quegli anni è una località di passaggio
e di breve sosta per quei viaggiatori appena giunti
o in procinto di partire per l’Egitto, la Grecia
o le Indie, o con i treni diretti al nord, ma nonostante
rappresenti una importante tappa dell’Occidente
verso l’Oriente, non “ha neppure una
stazione paragonabile a quella di Auxerre e di Fontainebleau”.
Il porto di Brindisi in una incisione
del 1890
Lo scrittore tre anni
prima si era imbarcato dal nostro scalo per andare a
Corfù, l’isola “rimasta un’ineffabile
visione della mia prima giovinezza”. Dopo
un rapido giro al porto, dove “è un
incanto vedere l’ampia rada aprirsi due volte
protetta”, viene accompagnato da un amico
a vedere l’antica colonna che rappresentava il
termine della via Appia, rimanendo particolarmente affascinato
dalla storia della consolare romana a ricordo dello
splendore di quell’impero che ha dominato il Mediterraneo
per lunghi secoli. Il tour cittadino proseguì
sul lungomare sino al Castello Svevo, all’epoca
impiegato come Bagno Penale. Qui il noto saggista ebbe
una “impressione orribile”, una
macabra sensazione causata “dal rumore delle
catene dei forzati, che riempivano del tintinnio il
castello in riva al mare”. I settecento condannati
rinchiusi nelle prigioni, vestiti con camiciotti bruni
e coperti, secondo il grado della loro pena, da un berretto
rosso o verde, trascinavano la gamba gravata dal peso
della “barbara catena” che partiva
dalla loro cintura per chiudersi in un anello alla caviglia,
causando un grande tintinnio metallico e sinistro di
cui l’interomaniero vibrava. “Nulla
mi ha colpito il cuore come percorrere le corsie e le
sale di questa fortezza, sempre accompagnato dal rumore
di ferraglie” scrisse Bourget, sconvolto
anche dai visi e dalle espressioni angosciate dei detenuti
rassegnati ormai all’irrimediabile destino. “Per
sopportare questo spettacolo di vinta umanità,
bisogna ricordarsi che c’è del sangue su
quelle mani che alzano il berretto per salutare lo straniero,
che ci son drammi di scelleratezza dietro quegli sguardi
che lo seguono con un resto di fosca curiosità”.
Il Castello Svevo adibito a Bagno
Penale
I forzati lavoravano
nei “laboratori ben areati” adibiti
all’interno del castello. “Un’intelligentissima
direzione” alternava alcuni di questi condannati
alla coltivazione dei terreni della zona, ricordando
che molti di loro, già all’epoca dei lavori
diretti dal Pigonati (1777), erano impegnati nei lavori
di escavazione del porto e nella bonifica di una buona
parte delle zone una volta paludose ed infestate dalle
febbri malariche, grazie al loro lavoro queste aree
furono colmate, risanate e rese finalmente abitabili.
Ma le condizioni dei condannati erano da sempre al limite
della sopravvivenza, molti di loro morivano di stenti
e venivano inumati nel fossato del castello, senza il
diritto di una degna sepoltura.
“Perché,
pur scorgendo nelle bestiali fisionomie di questi miserabili,
le tracce di ferocia ereditarie, ci si domanda se la
società non è responsabile, almeno a mezzo,
delle conseguenze di quei medesimi istinti? Fino a che
punto ha assolto il suo compito d’educatrice,
questa società?”. Una analisi ricca
di profonde considerazioni che dimostrano la spiccata
sensibilità sociale del critico e moralista francese,
fortemente rattristato dalla condizione di questi infelici
destini, tanto da offuscare la bellezza del paesaggio
arricchito da quel “cielo azzurro sopra l’azzurro
del mare, le vele bianche confuse con le ali dei bianchi
gabbiani, l’ampia distesa fitta di olivi che circonda
la città divorata dal sole”.
In precedenza altre
simili e tristi testimonianze erano state lasciate dal
pittore e poeta scozzese Craufurd Tait Ramage
del 1828 e dell’archeologo Leon Palustre
de Montifaut del 1867.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.158 del 24/7/2020
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