LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
EPIDEMIE DI PESTE
A BRINDISI
Riti religiosi e pagani per vincere le pestilenze vissute
e scampate tra il XVI e XVIII secolo
Le pestilenze e la
carestia, termini che apparentemente sembrano relegati
al passato, hanno afflitto l'umanità durante
tutta la sua lunga esistenza. Peste, colera, malaria
e tifo, malattie tra le più diffuse e causate
solitamente dalle pessime condizioni esistenziali ed
igieniche in cui si viveva, hanno generato gravissime
pandemie in ogni periodo della storia e procurato lo
sterminio di una buona parte della popolazione di allora
che veniva colpita nella quasi totalità ad ogni
ondata epidemiologica.
Gli effetti di questi fenomeni patologici hanno sempre
causato pesanti sofferenze fisiche e avuto un impatto
enorme sulla vita delle persone, determinando crisi
economiche e politiche, generando importanti flussi
migratori e persino grandi ripercussioni a livello culturale
e letterario, basti pensare al ruolo dell’epidemia
del 1348 raccontata dal Boccaccio nel suo Decameron
e quella del 1630 descritta nei Promessi Sposi dal Manzoni.
Morti di peste caricati su un
carro (dal web)
Anche Brindisi ha
subito e vissuto una serie di pandemie nel loro divenire
ciclico. Nel 1526, si legge della Cronaca dei Sindaci
(Cagnes e Scalese), “alli 24 del mese di luglio
incominciò la peste in questa città di
Brindisi e durò un anno continuo; dove ne morirono
ottocento persone”, del morbo ne parla anche
il medico e scrittore dell’epoca Giovanni Maria
Moricino: “si scoperse in Brindisi …
la vigilia dell’apostolo san Giacomo, con tanta
violenza, che in pochi giorni uccise gran numero dé
cittadini”.
La peste si era manifestata in numerosi focolai sparsi
in tutta la nazione aggiungendosi ai tanti mali che
già l’affliggevano, probabilmente venne
introdotta e favorita nel meridione dai soldati dei
tanti eserciti che transitavano e di avvicendavano con
una certa continuità senza sottoporsi alle regole
sanitarie, e restò ben documentata anche nella
capitale del regno di Napoli, dove “continuò
tutto l’anno, che non fu casa che non ne sentisse
travaglio … e quando del tutto parve estinta allora
pigliò maggior forza perciocché l’anno
28 e 29 fé grandissimo danno, onde vi morirono
dintorno a 65.000 persone” (G.A. Summonte).
La peste del 1656 a Napoli in
un dipinto di Domenico Gargiulo
La città di
Brindisi “atterrita, vedendosi minacciata
di rimanere deserta - racconta Ferrando Ascoli
nella sua Storia pubblicata nel 1886 - cominciò,
nell’intento di allontanare l’epidemia,
a fare digiuni, ad innalzare pubbliche preghiere, a
correre in processione; e fabbricò per voto un
tempio a San Rocco, dove poi fu eretto il monastero
dei padri Carmelitani. Ciò non serviva che ad
accrescere la furia del male, che durò moderato
e a intervalli per due anni di seguito”.
La chiesa in onore del santo originario di Montpellier,
implorato per secoli come protettore dalle pestilenze
e malattie gravissime, fu eretta poco oltre l’ingresso
alla città da Porta Mesagne e venne concessa
tre anni dopo in uso ai carmelitani, pertanto successivamente
prese la denominazione di Santa Maria del Carmine, da
qui il nome alla nota ed importante strada che attraversa
il centro cittadino. Dell’edificio sacro resta
solo una statua in pietra dal santo oggi collocata nel
cortile del Palazzo del Seminario, affiancata da quella
di san Sebastiano, martire sopravvissuto al supplizio
delle frecce, a cui venne attribuito il prodigio della
protezione contro la peste già nel VII secolo
quando si credeva che il morbo contagioso si propagasse
nell’aria rapidamente come una freccia (strumento
del castigo divino) scagliata dall’ira di Dio.
Entrambi i santi infatti venivano invocati nel medioevo
come taumaturghi protettori dall’epidemia: all’epoca
a nessuno era noto contro cosa si combattesse, non si
conoscevano batteri e virus, e non era certo se si trattasse
di una malattia o piuttosto di una punizione apocalittica
per i peccati degli uomini. Pertanto se da una parte
si faceva ricorso al sacro con le processioni religiose,
dove però la concentrazione di folle favoriva
il contagio, dall’altra il buon senso suggeriva
ai più coraggiosi l’isolamento e il rispetto
delle distanze per diminuire le infezioni, come avviene
ai giorni nostri.
Brindisi. Cortile del Palazzo
del Seminario, statue di san Rocco e san Sebastiano
La peste bubbonica,
in quanto infezione batterica del sistema linfatico,
era caratterizzata dall’infiammazione e dal rigonfiamento
doloroso dei linfonodi, o bubboni, generalmente a livello
inguinale. La malattia si manifestava all’improvviso
con febbre alta, cefalea, grave debolezza, convulsioni,
vomito, sete intensa e anche con il delirio. Dopo tre
giorni comparivano macchie nere cutanee, da cui il nome
di "peste o morte nera" e si moriva quasi
subito, anche se non mancavano casi di un decorso benigno
con sintomi lievi che si attenuavano dopo alcuni giorni
fino a scomparire.
Il culto per san
Rocco a Brindisi proseguì nel tempo, infatti
fu invocato ancora durante la peste del 1656, quando
nel mese di marzo vi furono i primi casi e “continuò
per otto mesi” causando migliaia di morti
in tutto il mezzogiorno: a Napoli vi furono 240 mila
vittime, “le vie della città erano
cosparse di cadaveri, che rimanevano per molti giorni
ammucchiati e insepolti. Il lezzo e i miasmi si diffondevano.
Gli scampati popolavano le chiese, scapigliati, piangenti,
imploranti misericordia” (P. Palumbo). Nelle
restanti province si registrò un tasso di mortalità
oscillante fra il 50 ed il 60% della popolazione, fortunatamente
l’intera provincia di Terra d’Otranto rimase
immune al contagio, tanto che il sindaco di Brindisi
Carlo Stea, in carica dall’uno settembre 1657
al 31 Agosto 1658, in un momento di forte esaltazione
religiosa decise di offrire alla città di Lecce
i pezzi della colonna romana caduta senza apparentemente
motivo 132 anni prima (il 20 novembre del 1528), per
onorare il patrono Sant’Oronzo il quale avrebbe
liberato la provincia dall’epidemia. L’idea
trovò una forte opposizione nella cittadinanza
e nei successivi sindaci, fu il vicerè Conte
di Castrillo nel 1660 ad ordinare che i pezzi della
colonna fossero trasportati a Lecce come contributo
per la realizzazione di un monumento in onore del protomartire.
Carcasse di animali colpiti della
peste bovina (dal web)
Il 1712 fu un anno
drammatico per una gravissima pestilenza bovina proveniente
dal centro Europa che compromise il patrimonio zootecnico
di interi territori. Secondo il prof. Deguerce in due
anni morì il 90% del bestiame europeo. A Brindisi
nel mese di giugno si proibì il commercio degli
animali, in particolari dei bovini, visto che “ne
morivano centenara”. Nonostante in ogni masseria
si cercava di tenere separato il bestiame sia durante
il pascolo che nell’abbeveraggio, l’infermità
non si riusciva a fermare, e tutte le carcasse degli
animali venivano immediatamente bruciate. Il 29 luglio
nella chiesa di Santa Maria degli Angeli si osservarono
le “quaranta ore” di preghiera sull’altare
del SS. Crocifisso, dove fu portato in processione dal
Capitolo il “corpo del glorioso martire s.
Teodoro nostro tutelare”. Da qui un’altra
processione prese forma e si diresse “sopra
la porta di Mesagne” con la croce del monastero
nel quale vi era “una particella del legno
della croce di nostro Signore Gesù Cristo”,
con il quale “si fecero le Sante benedizioni
per la conservazione degli animali vaccine”.
Nell’angoscia collettiva, nell’impotenza
e la disperazione di intere famiglie di contadini, si
cercava un rimedio alla drammatica epizoozia pagando
il tributo alla fede, in tutte le chiese della città
quotidianamente si cantavano le messe con l’esposizione
del Sacramento e si chiedeva grazia a san Rocco e agli
altri santi: ogni padrone della masseria prendeva l’olio
della lampada di sant’Oronzo per ungere il proprio
bestiame, nei pozzi venivano gettate l’acqua benedetta
e le medaglie di san Benedetto, ma nulla riusciva a
fermare la terribile malattia infettiva e virale dei
ruminanti. Vano risultò anche l’intervento
del frate Salvatore Benincasa di Potenza, noto per aver
fatto cessare l’epidemia con le sue benedizioni,
fatto venire appositamente in città.
Ad ottobre la situazione peggiorò per la mancanza
di acqua nei campi, ormai abbandonate e deserte, i venti
caldi di scirocco continuavano a tenere alte le temperate,
fu deciso di esporre e portare in processione ancora
una volta le reliquie di san Teodoro e il braccio di
san Leucio, cantando le orazioni “pro pluvia”
e “pro peste animalium”, ma nel
mese di novembre l’infermità fece strage
di animali in altre masserie dell’agro brindisino
sino ad allora scampate alla pestilenza. Solo con l’arrivo
dell’inverno la situazione si normalizzò,
lasciando però la città in una gravissima
situazione di carestia.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.142 del 3/4/2020
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