LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
I DUE INTERNATI
BRINDISINI DELLA RESISTENZA
La storia di Gaetano De Vita
e Beppe Patrono, internati per lunghi
mesi,
soffrendo la fame, il freddo e costretti ai lavori forzati
Il dramma dell’esercito
italiano iniziò alle ore 19,45 dell’8 settembre
1943, quando in radio veniva annunciato l’armistizio
raggiunto tra il governo italiano e le forze alleate.
La mancanza di disposizioni e direttive alle truppe
dislocate sul territorio nazionale e all’estero
(Francia, Balcani, Grecia e Albania) generò lo
sfacelo completo delle forze armate italiane, che rimasero
in balia dell’aggressione tedesca: moltissimi
reparti vennero disarmati e i soldati fatti prigionieri,
chi non accettava la proposta di aderire e combattere
tra le fila dell'esercito tedesco veniva deportato nei
lager in Germania, i famigerati Stalag. Meno del 10
per cento accettò l'arruolamento, quasi tutti
appartenenti alle Camicie Nere e alla milizia volontaria
del regime fascista, tutti gli altri, circa 750 mila
soldati italiani che in seguito presero il nome di Internati
Militari Italiani (IMI), vennero privati dello status
di prigionieri di guerra, condizione che, invece, era
tutelata dalla Convenzione di Ginevra.
Gli internati vissero
lunghissimi mesi al freddo, senza alcuna assistenza
sanitaria, in pessime condizioni igieniche e in persistente
scarsità di cibo, tra continue umiliazioni ed
esecuzioni sommarie, costretti ai lavori forzati nelle
industrie e nei campi agricoli. Ne morirono oltre 40
mila durante il periodo di detenzione.
Tra le fila degli IMI si annoverano alcune tra le maggiori
personalità della cultura e della politica italiana
del dopoguerra, come Giovannino Guareschi, Alessandro
Natta, Edilio Rusconi, Tonino Guerra, Mario Rigoni Stern,
Luciano Salce, Luigi Silori, Gianrico Tedeschi, Raffaele
Pisu, Ernesto Cairoli e tanti altri ancora. Con loro
anche alcuni militari brindisini, come Gaetano De Vita,
compagno fin dai tempi del liceo classico di un altro
importante protagonista della resistenza italiana, Beppe
Patrono. Quell'8 settembre i due amici erano in posti
diversi e per questo si trovarono a vivere due situazioni
differenti.
Gaetano De Vita
Gaetano De
Vita era a Curon Venosta, un paese della provincia
di Bolzano, dove venne catturato sotto la minaccia armata
da alcuni soldati tedeschi e costretto, insieme agli
altri militari, ad attraversare a piedi l'Europa in
un viaggio fatto di stenti ed umiliazioni, sino al campo
di concentramento di Sanbostel, a 43 km a nord-est di
Brema. Qui Gaetano, classe 1918, da sottotenente del
17° Reggimento di Fanteria Acqui divenne il n. 99083
della baracca 31A dello Stalag XB, “due anni
di cimici, pulci, pidocchi, la fossa comune nel campo
di lamponi, il mercato nero, il freddo, la fame, le
violenze, i pidocchi, le malattie” dichiarò
l’anziano deportato durante una lucidissima intervista
di oltre tre ore e mezza raccolta nel dicembre del 2015
da Katiuscia Di Rocco, direttrice della
Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo”. Era
la prima volta che il De Vita parlava di quei lunghi
anni di prigionia fatti di sopraffazione fisica, morale
e spirituale, definendosi perfino come “un
guscio di nocciola in un oceano in tempesta”.
Lui, come centinaia di migliaia di altri militari, non
volle mai aderire alla Repubblica di Salò, riconoscendosi
nell'Italia libera con capitale Brindisi. Durante il
giorno lavorava in una azienda agricola di due coniugi
tedeschi, e grazie a loro riuscì ad evitare la
fucilazione: Gaetano aveva un problema ad braccio perciò
veniva spesso esonerato dai lavori pesanti, ma durante
le visite di controllo della commissione militare, Elda
ed il marito garantivano la sua totale efficienza. Nell’intervista
ricorda con emozione le lacrime della donna in occasione
della sua partenza, infatti con l’invasione della
Germania da parte degli alleati, il 3 maggio 1945 il
campo fu abbandonato dalle milizie del Terzo Reich,
da quel momento la paura fu tanta, “avevamo,
infatti, avuto notizia che il comando tedesco aveva
ordinato che nessun italiano, tra gli internati, doveva
essere consegnato vivo alle truppe alleate”
racconta ancora l’ex ufficiale brindisino, che
quando riuscì a tornare a Brindisi e si presentò
davanti ai genitori, questi non lo riconobbero: era
alto 188 cm e pesava 80 kg, quando ritornò pesava
solo 40 kg, sembrava un’altra persona. Eppure
per lui, nonostante la fame, il freddo, le violenze,
il lavoro coatto, e il ritrovamento di una fossa comune
di cadaveri fucilati, l'odio restava comunque “un
sentimento inconsistente", ma non riuscì
più a sopportare la pronuncia germanica e tantomeno
l’abbaiare di un cane pastore tedesco. Gaetano
De Vita è venuto a mancare nel 2017.
Camicia di Gaetano De Vita con
numero di Sandbostel
Beppe Patrono
l’8 settembre del 1943 si trovava a Roma nell’ospedale
militare del Celio dove era stato ricoverato il giorno
prima con 41 di febbre. Dopo il comunicato di Badoglio
indossò una divisa di sottotenente dei Granatieri,
uscì dall'ospedale ed entrò subito a far
parte della resistenza, per la quale lui e i suoi amici
già si preparano da tempo. Assunse il nome di
Pasquale Marrazza, come testimonia
la carta d'identità falsa realizzata dal notissimo
falsario romano Guido Bonnet, dove
risultava nato nel 1920 (in realtà la data di
nascita era il 18 Agosto 1918) e residente a Genova,
ma la foto era la sua. Durante la clandestinità
scrisse più volte alla madre, racconta di aver
visto Pilo Albertelli, partigiano e
medaglia d’oro al valor militare, salire su un
tram mentre lo salutava dicendogli “addio
Patrono” prima che fosse preso e poi barbaramente
trucidato dai nazisti nelle Fosse Ardeatine. Delle sue
lettere ci restano diverse citazioni utili e sempre
valide per riflettere sul mondo di oggi, come: "cancellare
la memoria è un delitto, un crimine, cara madre,
è come scivolare nelle sabbie mobili, consolidare
le leggende, lasciare la ragione e vivere nell'ignoranza
e nel fanatismo [...] ormai ci sentiamo legati per tutta
la vita ad un lavoro politico ch’era già
il nostro, ma che ha ricevuto ora una tragica consacrazione
con la morte di tanti migliori di noi”.
Beppe Patrono era figlio di Raffaele,
all’epoca segretario particolare a Roma dell’onorevole
Chimienti, sottosegretario al ministero della guerra,
e di Francesca Guadalupi, figlia di
Tommaso, il noto produttore e commerciante all’ingrosso
di vino. Frequenta il Liceo Ginnasio “Marzolla”
di Brindisi insieme ai suoi inseparabili amici Paolo
Colonna, Gaetano De Vita e
Ugo Guadalupi, tutti già da
giovanissimi fortemente critici nei confronti della
dittatura fascista. Lettore attento delle opere di Benedetto
Croce, si iscrive alla Scuola Normale Superiore
di Pisa, dove studiano anche Armando Saitta
e Carlo Azelio Ciampi. Dopo la guerra
rientra a Brindisi verso la fine del ’45, ma a
differenza dell’amico Gaetano De Vita che non
voleva più sentire parlare di politica, si prodiga
affinché il 2 giugno del 1946 si votasse scegliendo
la Repubblica, divenendo attivista del Partito d’Azione
insieme a Tommaso Fiore e Gaetano Salvemini,
che conosce da tempo; dopo un passaggio nel PSI si dichiara
indipendente, divenendo consigliere comunale per diverse
legislature durante gli anni ’60. In tanti ricordano
ancora i suoi fervidi comizi nelle piazze cittadine
sui temi di politica locale e nazionale. Dopo una lunga
malattia degenerativa, muore nel 2006.
Beppe Patrono
Il documento falso di Beppe Patrono
con il nome di Pasquale Marrazza
Le storie di Beppe
e Gaetano raccontano del grande sacrificio vissuto da
questi silenziosi e coraggiosi eroi della democrazia
per difendere gli alti valori della giustizia, della
libertà ed i principi di coerenza e dignità
sui quali è stata costruita l’Italia repubblicana.
Alcuni documenti che riportano le vicende vissute da
questi due amici, senza dubbio una fonte storica privilegiata,
sono stati esposti all’Auditorium delle Scuole
Pie durante il Progetto “Brindisi Capitale”,
suscitando giustamente tanto interesse e curiosità.
Giovanni
Membola
per Il 7 Magazine n.103 del
21/6/2019
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