LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
LA
SPIAGGIA DI SANT'APOLLINARE
La nascita
di un mito
Una rotonda con due lunghe ali
di camerini tese ad abbracciare un arenile di sabbia
dorata e ombrelloni colorati come fiori di campo. E,
di fronte, un mare al quale il Castello rosso da un
lato e le Pedagne dall’altro tolgono il senso
dell’infinito. Un mare che diventa un’immensa
piscina solcata, come nelle fiabe, da bianche motonavi…
Era questa la spiaggia dei brindisini, era questa Sant’Apollinare,
lo stabilimento balneare rimasto nel cuore di quanti
hanno avuto la fortuna di frequentarlo.
La spiaggia di Sant'Apollinare
vista da Villa Monticelli
La spiaggia, situata
nel porto medio, poco oltre il Canale Pigonati, era
già attiva agli inizi del ‘900, quando
i lidi funzionanti in quel tratto di costa erano ben
quattro: Lido Piccolo, Lido
Risorgimento, Lido Gaudioso
e Lido Cafiero. Successivamente tutti
unificati in Sant’Apollinare.
Era l’epoca (primi anni Trenta) delle cabine su
palafitte, con botola e scaletta incorporata per consentire
il diretto e discreto ingresso in acqua dei pudichi
bagnanti. Nonostante questo accorgimento e tenuto anche
conto che i castigatissimi costumi lasciavano scoperti
solo pochi centimetri di pelle, l’Arcivescovo
del tempo - Mons. Tommaso Valeri -
condannò duramente “l’usanza di svestirsi
in spiaggia”... Senza immaginare che, nel corso
del secondo conflitto mondiale, allorché l’area
divenne un accampamento militare, i soldati bruciando
le cabine di legno per scaldarsi, avrebbero accelerato
l’inarrestabile processo di modernizzazione di
Sant’Apollinare.
La spiaggia negli anni '20
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Bagni detenuti |
1922 |
1928 |
1928 |
1928 (De Castro)
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1931 |
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1938 |
Fam. Sierra |
Fam. Tepore |
Coll. De Castro |
Archivio della famiglia Gigliesi.
Foto anni '20 |
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Si deve all’intuizione
e all’imprenditorialità di Italo
Mastrobiso la rinascita della spiaggia nel
dopoguerra. L’idea di un lido attrezzato maturò
nella mente del ragioniere brindisino durante le sue
passeggiate sul lungomare del porto e si concretizzò
grazie all’aiuto di altri sette concittadini (tra
i quali i rappresentanti più in vista delle famiglie
Titi e Tarantini e
i cugini don Ugo e don Vitantonio
Guadalupi). L’accordo fu ufficializzato
con la costituzione d’una Società.
Probabilmente
non ci sarebbe stato bisogno nemmeno di una Società,
visti i tempi che correvano e i galantuomini chiamati
a costituirla. Primo tra tutti il ragioniere Mastrobiso
(foto a lato). Una figura
che, a giudicare dall’aspetto, appariva come un
personaggio d’inizio Novecento approdato chissà
come sulle rive di una Sant’Apollinare degli anni
Cinquanta. Fin dal primo momento il Mastrobiso non si
ritenne solo un imprenditore. Comprese infatti che,
a causa della frequentazione di una clientela che travalicava
i confini provinciali e - grazie a un eccezionale flusso
turistico - anche quelli nazionali, la nascita e poi
la gestione della struttura lo investiva d’una
sorta di funzione istituzionale.
Questo spiega, in aggiunta all’innata riservatezza
del carattere, quel suo abbigliamento certamente anomalo
per un luogo vacanziero. Il ragioniere girava infatti
per la “sua” spiaggia con una candida camicia
bianca su cui spiccavano le inseparabili bretelle. Non
di rado indossava disinvoltamente anche giacca e cravatta!
L’unica eccentricità era costituita dalle
scarpe (non sandali!) prive di calze. In tal modo, al
riparo del fresco panama e degli occhiali scuri, seduto
sulla poltroncina di vimini, dalla rotonda spingeva
lo sguardo su quel mare che, come l’arenile, considerava
un po’ suo. E mentre fantasticava progetti ancora
più grandi, a tenergli buona compagnia c’era
il vocio gioioso dei “suoi” bagnanti che,
come una musica, si levava nel cielo di una Brindisi
a quel tempo magica.
Il rag.
Italo Mastrobiso, Fotogallery - clicca
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Italo Mastrobiso seduto
in spiaggia (archivio Irma Mastrobiso)
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Italo Mastrobiso seduto
davanti all'ingresso lato terra del lido,
si possono notare il cancello "a grelle"
ed i ragazzi/custodi (archivio Irma Mastrobiso)
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Italo Mastrobiso (il primo
a sinistra). Al fianco la moglie e una famiglia
di amici sull'arenile della spiaggia (archivio
Irma Mastrobiso)
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Italo Mastrobiso seduto
ad un tavolino della rotonda con il suo cane
(archivio Irma Mastrobiso)
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Italo Mastrobiso (il primo
a sinistra) gioca a carte con alcuni amici
nella sala interna della rotonda (archivio
Irma Mastrobiso)
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Il progetto del lido,
redatto dall’ing. Casamassima,
prevedeva la costruzione di una rotonda centrale e due
semicerchi di cabine che dal Canale Pigonati arrivassero
fin sotto la villa Monticelli. Approvato dal Demanio
e ottenuta la concessione dalla Capitaneria di Porto,
già nel 1946 i lavori furono
avviati e conclusi con l’inaugurazione dell’ala
a ovest della rotonda: complessivamente 110 cabine con
veranda fronte mare e 50 cabine sul lato retrostante.
L’anno successivo fu completato anche il versante
orientale, in direzione della villa Monticelli. Al centro
della spiaggia, quasi prospiciente la rotonda, fu realizzato
un pontile in legno per l’attracco delle barche
e dei vaporetti. L’ottima gestione della spiaggia
è rimasta per quasi trent’anni in mano
alla famiglia Mastrobiso.
Il traghettamento
Per recarsi allo stabilimento
balneare era necessario raggiungere la banchina - carichi
di tutto il necessario per trascorrervi un’intera
giornata! - nei pressi dei giardinetti di Piazza Vittorio
Emanuele. Da qui, infatti, partivano le barche dirette
alla spiaggia.
Così Domenico Faraselli ricorda
i preparativi e il “viaggio” fino a Santa
Pulinara:
“Mia madre era solita alzarsi prima delle cinque
per preparare il pranzo da portare in spiaggia: melanzane
ripiene, riso patate e cozze, la "tajedda"
e tutto ciò che la meravigliosa cucina brindisina
sapeva offrire. Non mancavano "li piscuètti",
"li cacchitieddi cu lu pepi o cu lu finucchieddu".
Verso le sette si usciva da casa per prendere la corriera
di Moretto che da Via Sicilia (rione Commenda) portava
“abbasciu alla marina", ovvero al
capolinea accanto alla Capitaneria di Porto. Da qui
si sceglieva l’imbarcazione che, in pochi minuti,
ci trasportava fino al pontile della spiaggia”.
Le motobarche,
o vaporetti, erano le più numerose,
veloci ma talmente “fumose” che si giungeva
in spiaggia con i polmoni saturi degli effluvi della
nafta. Il costo della corsa era di 10 lire.
“La più grande, distinguibile per la poppa
tonda - ricorda Roberto Aiello - era
la Sant’Antonio, di proprietà della famiglia
De Simone. Le imbarcazioni, con più
fermate, raggiungevano, nell’ ordine, le spiagge
di Sant’Apollinare, della Pineta (proprio sotto
la villa Monticelli) e di Fiume Piccolo, la spiaggia
più economica posta poco oltre il promontorio
di Punta delle Terrare”.
C’erano poi le motobarche
che, nel tempo, sono appartenute a Vicienzi
Guadalupi (detto “Vicienzi di Luca”),
tutte intestate alle sue figliole: Jole, Giuseppina,
Antonietta… Non aveva problemi il buon Vicienzi
a dare alle sue barche il nome delle figlie, visto che
ne aveva avute sedici (quelle dichiarate…). E
nessun figlio maschio!
Vicienzi - a raccontare è il nipote (per via
materna) Francesco Romanelli - per
invitare i gitanti a salire sulla sua barca e nello
stesso tempo per tenerli allegri soleva sporcheggiare
a bella posta (nella realtà era istruito, tanto
da leggere nel privato Dante!) gridando: “Saliate,
saliate che n’atru picca partimu”.
Con i turisti stranieri l’approccio, invece, era
di questo tenore: “Matama, mussiù,
matamasuella, vulè vinì cò muà
a la plasce?”. Poi, per non creare confusione
al momento dell’imbarco, invitava tutti a spostarsi
verso prua raccomandando: “Avanti, avanti,
attenzione che non sciolate”. All’arrivo,
infine, salutava tutti con l’invito: “Scendiate,
signori, scendiate ca ammu rrivvati”.
Vicienzi Guadalupi, indicato
dalla freccia, sulla sua motobarca "Jole"
Le barche
a remi erano quelle più caratteristiche.
Lunghe circa sei metri, potevano trasportare sino a
10-12 persone. I barcaioli, com’è intuibile,
erano estremamente gelosi delle loro imbarcazioni che
costituivano l’unico cespite della famiglia, e
per questo difficilmente lasciavano i remi in mano a
estranei, a meno che non si trattasse di gente esperta
e di loro conoscenza. Infatti, la rottura dello stroppo
a causa d’una vogata troppo energica e scomposta
poteva comportare quella più grave dello scalmo
o addirittura del remo, con il conseguente forzato fermo
della barca.
Tra i più noti proprietari di barche c’erano
i fratelli Ghiatoru e Cocu
Sinisi: indossavano sempre linde canottiere
ed erano di pochissime parole. Per loro il traghettamento
costituiva un lavoro serio e comportava responsabilità
che mal si conciliavano con le distrazioni di battute
e canzonette.
Uno degli ultimi barcaioli di quei tempi felici, Raffaele
Di Giulio, ci ha lasciato agli inizi del 2013!
Le barche
a vela (più correttamente “lance”),
le più poetiche per quelle vele latine simili
a bianche ali di gabbiani, erano prerogativa dei turisti
e, in genere, di una clientela più giovane e
sportiva. Ma anche “importante”, annoverando
tra gli habitué gente come don Ciccio
Scarparo (dei Magazzini Napoletani Scarparo
Confezioni) e il noto geometra Mautarelli.
“Quando c’era vento forte - spiega Roberto
Aiello - queste barche, bordeggiando, arrivavano sino
alla Sciaia e poi deviavano di bolina per tornare verso
la spiaggia”.
Un altro apprezzato proprietario di barche a vela (la
“Sirena del mare”) era Frangiscu
Romanelli - detto Sunillu
- l’altro nonno (per via paterna) di Francesco
Romanelli. Sunillu, però, era un barcaiolo sui
generis, nel senso che non faceva le corse per la gente
comune. Lui trasportava un’altra fetta dell’élite
brindisina che faceva capo a Giammarco Gallinari
e a Beppe Patrono, per citare alcuni
dei suoi più affezionati clienti. Ma non disdegnava
d’accompagnare a Sant’Apollinare anche i
facoltosi turisti inglesi e americani che alloggiavano
all’Hotel Internazionale e dai quali, al loro
rientro nei Paesi d’origine, riceveva decine e
decine di cartoline di ringraziamento per l’eccellente
trattamento ricevuto.
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Il primo barcaiolo a destra
(vicino la banchina)è uno dei fratelli Sinisi.
Il secondo barcaiolo è Raffaele Di Giulio
detto Ucciullalla.
La prima barca a vela sulla destra è la "Sirena
del mare" di Francesco Romanelli
La barca a vele color rosa era di proprietà
Paccali.
La barca a vela alla banchina è "Stella
di mare" di Giovanni Romanelli detto "Giuvanni
Mmeli" (miele), per la sua bontà. |
Ma la presenza
delle barche e dei barcaioli non costituiva l’unico
motivo di folclore: a dare allo scenario il sapore di
un set cinematografico felliniano c’era il contorno
di personaggi anch’essi unici, gente "alla
bona", che “faceva la giornata” con
le mance. Erano i musicanti, ché - con tutto
il rispetto - non si potevano certo confondere coi musicisti!
Tra i più conosciuti “Nunnu Furone”,
il suonatore di fisarmonica che, nello sforzo sovrumano
di mettere insieme le note che, ahimè!, uscivano
alla rinfusa e malconce dallo strumento, si esibiva
in una serie di esilaranti rictus che ripagavano largamente
i passeggeri del costo del biglietto. Nunnu Furone portava
a tracolla un tascapane militare nel quale custodiva
gelosamente una bottiglietta di vino con cui si dissetava
dopo i travolgenti assolo… e quando il pubblico
gli chiedeva il bis eseguiva quello che lui chiamava
il “pezzo di ringraziamento” ripetendo la
stessa canzone appena suonata!
Tra gli altri suonatori ambulanti di fisarmonica e mandolino
sono da ricordare anche i fratelli Stefanizzi.
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Le lance a vela e le motobarche
che portavano alla spiaggia di Sant’Apollinare |
Una pratica consolidata
tra i più giovani, per evitare il pagamento dell’ingresso
a Sant’Apollinare, era quella di gettarsi in mare
una volta che l’imbarcazione giungeva nei pressi
degli scogli che segnavano l’ultimo tratto del
Canale Pigonati. Da quel punto era infatti un gioco
da ragazzi raggiungere a nuoto la spiaggia. Solo un
componente del gruppo, incaricato di raccogliere gli
indumenti di tutti gli altri, giungeva a destinazione
con la barca e, ovviamente, pagava un singolo accesso.
Qualche “portoghese” che non poteva lasciare
a nessuno i propri indumenti superava il breve tratto
di mare tra gli scogli e la spiaggia nuotando con una
sola mano mentre con l’altra fuori dell’acqua
teneva all’asciutto mutande e canottiera…
Nel
gabbiotto sul molo c’era la signora Maria
Battaglia - consorte del ragioniere Mastrobiso
- a staccare i biglietti d’ingresso: il prezzo
era di 50 lire, comprensivo dell’uso di spogliatoio
e docce.
A coadiuvarla stazionava, poco più in là,
il controllore delle tessere d’ingresso sulle
quali erano riportati, oltre ai dati del titolare e
al numero della cabina, le caselle dei mesi e dei giorni
che poi venivano bucate con l’apposita macchinetta.
(nella foto a lato Irma Mastrobiso,
figlia di Italo, nel gabbiotto biglietteria)
Erano invece in pochi,
i più facoltosi, ad utilizzare le auto o i birocci
per recarsi alla spiaggia, mentre i contadini erano
soliti portare l’intera famiglia a bordo del “travino”,
il tipico carretto trainato dal cavallo e utilizzato
per i lavori in campagna.
Lasciato con le “stanghe in aria” per potervi
appendere un lenzuolo costituiva l’alternativa
più economica per ripararsi dalla calura.
La spiaggia
e i servizi
Come si è detto lo stabilimento
balneare contava su una rotonda in carparo, con terrazza
e due ali di cabine le cui porte erano state costruite
utilizzando l’ottimo legname ricavato da una nave
in demolizione. Nel corpo centrale, oltre al bar, vi
era anche un ristorante che, nel tempo, è stato
gestito dai più noti ristoratori locali, quali
Antonio Aiello (dal 1947 al 1951),
Giuseppe “Pino” Palermo
(divenuto successivamente il proprietario della Grotta
Azzurra, l’ex sala biliardi di piazza Anime),
e Pino Nobile (già proprietario
de “La Lanterna” di via Tarantini).
Al centro della spiaggia,
di fronte alla rotonda, il pontile in legno e, a a meno
di una cinquantina di metri da questo, il trampolino.
Il pontile della spiaggia e,
a destra (oltre la motobarca), il trampolino
Lo
stabilimento era dotato di docce sempre accessibili.
Sull’ampio arenile, vicino il bagnasciuga, si
trovavano due fontanelle d’acqua potabile (foto
sotto) che i ragazzi,
disattendendo le accorate raccomandazioni del ragioniere
Mastrobiso, utilizzavano al posto della più economica
acqua di mare per alimentare i fossati dei castelli
di sabbia o - i più discoli - per distribuire
gavettoni a destra e a manca.
Indicata dalla freccia una delle
fontanelle di acqua potabile
Il prezzo stagionale
delle cabine grandi - con veranda e copertura di stuoia
- era di 35mila lire, mentre l’abbonamento alle
cabine piccole era di 28mila lire per quelle fronte
mare e 21mila lire per quelle disposte sul lato posteriore.
L’assegnatario della cabina aveva diritto a otto
tessere d’ingresso. Le prenotazioni iniziavano
a marzo e si completavano già dopo 10-15 giorni,
dal momento che la maggior parte dell’affezionata
clientela confermava le stesse cabine anno dopo anno.
In definitiva, la richiesta è stata sempre di
gran lunga superiore alla disponibilità, tanto
che in un certo momento si ipotizzò la possibilità
di realizzare delle cabine sopraelevate. Ma per motivi
di sicurezza (l’eventualità che dal piano
superiore cadesse giù qualcuno o qualcosa) il
progetto non fu neanche presentato.
Chi non aveva la
cabina poteva però accedere in spiaggia pagando
un biglietto d’ingresso che dava diritto all’utilizzo
di cabine-spogliatoio ubicate nella parte posteriore
dell’ala occidentale. Di fronte, quasi a ridosso
del muro di cinta, c’era il locale che fungeva
da deposito degli effetti personali. Era qui che, alla
presentazione del biglietto, veniva fornito un attaccapanni
di legno munito d’una sacca reticolata che, a
un esame superficiale, poteva apparire una semplice
retina non molto diversa da quelle usate a quei tempi
dalle massaie per la spesa. E invece… Invece in
quel contenitore - così come nel magico gonnellino
di Eta Beta - più roba s’insaccava
(scarpe e zoccoli compresi) e più spazio rimaneva
a disposizione! Alla riconsegna dell’attaccapanni
veniva data una contromarca metallica numerata, unico
titolo valido per il ritiro del vestiario.
Ci si chiede ancora oggi quale fosse la mostruosa organizzazione
che presiedeva all’immagazzinamento dei panciuti
attaccapanni e alla loro veloce riconsegna. Svelare
questo segreto andrebbe a tutto vantaggio dell’attuale
trattamento dei bagagli negli scali aerei dove, a dispetto
dei più elaborati software, si riesce a rientrare
in possesso delle proprie valigie anche dopo alcuni
giorni d’attesa (se va bene!). Al contrario, non
risulta che a Sant’Apollinare si sia mai smarrito
qualcosa o, peggio, qualcuno sia tornato a casa col
solo costume da bagno (a parte i casi in cui si perdeva
la contromarca!).
E lo stabilimento
balneare, proprio per la molteplicità e la bontà
dei servizi offerti, era a tutti gli effetti una piccola
impresa nella quale trovava lavoro più di una
dozzina di persone. Infatti, oltre ai due addetti al
pontile e a un infermiere professionale per il primo
soccorso, vi erano ben sei-bagnini-sei (tre in ciascuna
delle ali, a destra e a sinistra della rotonda). Completavano
l’organico l’addetto all’ingresso
lato terra (cancello), quello allo spogliatoio, quello
ai bagni, il custode (che dimorava tutto l’anno
in una casa di due camere e servizi poco distante dalla
spiaggia) e in seguito, con l’avvento delle automobili,
anche il posteggiatore.
Per ultimo, sembra incredibile per quei tempi, c’era
anche un posto fisso di polizia.
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Il pontile della
spiaggia |
La spiaggia -
lato sud
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La Rotonda |
La
vita di spiaggia
Gli orari di apertura e chiusura del lido erano segnati
dall’accensione/spegnimento delle luci della rotonda.
I Mastrobiso giungevano in spiaggia subito dopo l’alba.
I primi bagnanti dopo le otto.
Le giornate sulla spiaggia, oltre ai commenti più
o meno benevoli sui concittadini (Sant’Apollinare
rappresentava la versione estiva dello struscio sui
Corsi…), erano all’insegna dei giochi sul
bagnasciuga e sulla sabbia (bocce, tamburelli, ecc.).
Chi invece optava per la terrazza del bar o la rotonda
poteva divertirsi al calciobalilla o rilassarsi ascoltando
al jukebox le canzoni più gettonate del momento.
Ma, soprattutto,
a differenza degli altri lidi “sassosi”,
Sant’Apollinare era la spiaggia dove i bambini
potevano sguazzare su un fondale “morbido”
come una pezza di velluto stesa sul banco d’un
merciaio. La sabbia, a causa dei dolci movimenti della
risacca, modellava dossi alti qualche centimetro e tra
loro equidistanti così da formare le righe d’un
grande spartito sul quale conchigliette e murici segnavano
le note della sinfonia musicata dal mare. Quei “gradini”
di sabbia, a meno d’un centinaio di metri dalla
riva, scomparivano tra la verde massa d’una posidonia
pigramente ondeggiante come messi al vento: era, quello,
il naturale limite di sicurezza per i bambini e coloro
che non avevano ancora acquisito una sufficiente confidenza
col mare e, di contro, le Colonne d’Ercole da
cui i più arditi iniziavano l’avventura
verso il trampolino e oltre…
Infatti, raggiungere il trampolino, ovviamente senza
l’ausilio d’una ciambella, consacrava i
ragazzi “nuotatori” agli occhi delle fanciulle
che, trepidanti, li osservavano da riva. La seconda
prova, quella dei tuffi di testa (non a coffa!)
richiedeva una dose supplementare di coraggio che si
acquisiva col tempo e dopo la dolorosa esperienza delle
panciate e delle testate (piantate fortunatamente sulla
sabbia e le alghe). Con la nuotata in solitario dal
trampolino alla prima boa (soprannominata “la
boa di lu Francisi”, con riferimento al sig.
Skirmunt - o Skirmut - proprietario della villa che
poi sarebbe divenuta Monticelli) le fanciulle erano
definitivamente conquistate. La seconda boa, quella
nei pressi di Maremisti, costituiva il sogno proibito
di chi cercava la gloria!
C’erano anche
i mosconi a remi, precursori dei pedalò. Infatti
Cosimo Romanelli (un altro Romanelli
della grande famiglia di barcaioli e pescatori), detto
Musuncieddu per via d’un
mento sfuggente, e Antonio Giove, detto
Cantarata, avevano acquistato
al Nord quelle imbarcazioni ancora sconosciute dalle
nostre parti e le noleggiavano a chi desiderava dedicarsi
al canottaggio.
Per fare divertire i bambini, invece, in assenza dei
gommoni e delle barchette di plastica (di là
da venire), l’ingegnosità locale aveva
ricavato dei sandalini sui generis dai gloriosi idrovolanti
CANT Z 506 oramai fuori uso. Quegli stessi velivoli
che per anni avevano utilizzato le tranquille e sicure
acque del porto medio per i decolli e gli ammaraggi,
suscitando lo stupore e l’ammirazione dei primi
bagnanti delle vicine spiagge. Le “gondole”
in duralluminio, quelle che avevano consentito il galleggiamento
degli aerei, infatti, opportunamente adattate, diventarono
- per la gioia di pochi fortunati! - delle indistruttibili
e inaffondabili canoe…
Una “gondola” ottenuta
dai sandalini degli idrovolanti (ph. collezione Irma
Mastrobiso)
Gli appassionati di
pesca, invece, si dilettavano a catturare sparatieddi
che, insieme a cuggiuni, vope e cefali
popolavano le acque del porto interno, o a prendere
tiratufoli (tunicati di mare del genere Microcosmus,
detti anche limoni di mare) e spuenzuli, frutti di mare
da qualche anno oramai vietati alla vendita e al consumo.
I golosi di mitili, dal canto loro, raccoglievano le
cozze nere cresciute sotto le grandi boe che
segnalavano alle navi l’ingresso del porto, mentre
vongole, cozze a noce e coccioli si
trovavano numerosi nella sabbia.
I genitori più
esperti insegnavano ai loro bambini a smuovere la sabbia
con i piedi per scovare questi molluschi, e quando saltava
fuori una “imperiale” un grido si levava
al cielo, come se avessero trovato un tesoro. Questa
“tecnica”, però, poteva avere un
risvolto negativo perché ogni tanto una Parasaura
(Tracine chiamate anche "pesce ragno" - Trachinus
araneus) pungeva un piede del malcapitato bagnante
ed erano dolori… Necessario, a questo punto, l’intervento
dell’attrezzato Pronto Soccorso.
Sempre in tema di
pesce, una prerogativa della spiaggia e un evento quasi
giornaliero, era l’arrivo di una barca di pescatori
che approdava sul bagnasciuga e con laboriosa maestria
tirava a riva le reti col pescato dando la possibilità
ai bagnanti incuriositi di assaggiare “alla crudele”
qualche alicetta o polipetto. Si anticipava così
la moda di gustare il pesce crudo appena pescato ed
acquistare a buon prezzo la famosa “frittura di
paranza”.
“Ricordo
come un incubo il costume da bagno in lana, tipico dell'epoca
- racconta Faraselli -. Era una fornace che diventava
pesantissima entrando in acqua e si allungava all'inverosimile.
Il tessuto produceva inoltre, all’interno delle
cosce, frequenti bruschamienti (arrossamenti),
favoriti dallo sfregamento della lana contro la pelle.
Per lenire i quali si rendevano poi necessari impacchi
casalinghi con un'emulsione a base di acqua e olio”.
I numerosi turisti
che in quegli anni giungevano a Brindisi a bordo dei
treni, in attesa d’imbarcarsi in serata sulle
navi per la Grecia, venivano riuniti in gruppi e accompagnati
in spiaggia dove trascorrevano la giornata in tutta
tranquillità. Qui, infatti, potevano utilizzare
le cabine, le docce e, come per i forestieri del circondario,
noleggiare costumi, ombrelloni e sedie a sdraio al costo
di 100 lire. La loro permanenza terminava poco dopo
l’arrivo delle bianche navi che attraversavano
il Canale Pigonati per entrare in porto. Cominciò
allora la consuetudine del tanto chiacchierato “inchino”
da parte dei Comandanti? Non è dato saperlo,
anche se... Sta di fatto che queste bellissime imbarcazioni
(tra cui l’Appia, la prima nave traghetto dell’Adriatica
in pool con l’Egnatia dell’Hellenic
Mediterranean Lines, e le mitiche Angelica,
Africa, Europa, Asia,
Esperia, ecc…), al suono delle
sirene, salutavano, unitamente ai passeggeri riuniti
sui ponti, quel lido baciato dal sole e lambito da acque
limpide come quelle greche. E i bagnanti, in specie
i bambini, rispondevano al saluto agitando festosi le
braccia. Era, quello, un rituale che si ripeteva tantissime
volte al giorno e che, come si è detto, per i
turisti rappresentava la chiamata per rientrare alla
Stazione Marittima e prepararsi all’imbarco. In
questo modo Sant’Apollinare aveva fatto loro un
altro regalo: trasformare un noioso giorno di sosta
in un anticipo di vacanza.
La spiaggia e una motonave mentre
entra nel porto di Brindisi (1950)
Durante le sere d’estate
venivano spesso organizzate riuscitissime feste da ballo
con musica dal vivo. Le più esclusive di tutta
la provincia e sempre molto frequentate anche dalla
buona società brindisina. In queste occasioni
non mancavano le elezioni di “Miss
spiaggia”, di “Miss
sorriso“ e di una più prosaica
e sensuale “Miss coscialunga”.
A tal proposito una leggenda metropolitana riferisce
di un curioso incidente occorso in occasione di una
di queste manifestazioni: a causa dell’eccessivo
numero di spettatori assiepati sul pontile la struttura
cedette facendo cadere in mare una settantina di scalmanati
fans…
Le modalità del concorso non scimmiottavano il
regolamento di Miss Italia, assomigliando di più
a quelle della Lotteria Italia che sarebbe stata inventata
molti anni dopo (anche in questo Sant’Apollinare
si è rivelata una antesignana!). Dai fans più
accesi (in primis nonni, genitori, fidanzati ufficiali
e aspiranti tali, fidanzatini ecc.) venivano infatti
acquistati i biglietti sui quali era possibile esprimere
la propria preferenza, vale a dire il nome della ragazza.
Colei che riceveva il maggior numero di consensi veniva
eletta reginetta della spiaggia. La vincitrice e le
damigelle d’onore, al posto dei lauti contratti
cinematografici o pubblicitari dei tempi attuali, ricevevano,
insieme all’ambita fascia, i doni offerti dai
negozianti della città, molti dei quali erano
abituali frequentatori della spiaggia.
Il
Ferragosto
Naturalmente il clou dell'estate
rimaneva il ferragosto: canti, balli, giochi e, soprattutto,
tantissime angurie. Quintali di meloni rossi - i cosiddetti
sarginischi - venivano sacrificati per la rinomata
mellonata del 15 agosto. Una tradizione, questa, che
si richiamava alle antiche Feriae Augusti di
epoca romana, fortemente voluta dal canonico brindisino
don Pasquale Camassa. Ma i meloni venivano
utilizzati anche dopo ch’erano stati degustati…
I bambini, infatti, si servivano delle bucce per farne,
con l’aggiunta d’un bastoncino e di una
vela di carta, graziose barchette con cui giocare.
Sin dal mattino venivano
organizzate partite di pallavolo (forse proprio qui
è nato il Beach Volley…), gare di nuoto
sui 100 e 150 metri, le corse con i sacchi e il popolare
“albero della Cuccagna”, dove i partecipanti
si cimentavano ad arraffare i premi in palio (in genere
salumi e altri generi alimentari) posti in cima a un
palo piantato nella sabbia e ricoperto di grasso per
rendere più difficoltosa l’arrampicata.
Una variante era costituita dalla “Cuccagna a
mare”. In questo caso il palo veniva fissato alla
punta del pontile e chi non riusciva a inerpicarsi cadeva
in mare tra le risate generali dei meno sportivi.
I bagnanti assistono ai giochi
in spiaggia il giorno di ferragosto
Per il pranzo si utilizzavano i piatti in alluminio
che poi venivano lavati con sabbia e acqua di mare.
Le bottiglie di vino e di acqua,
così come le famose angurie brindisine, venivano
tenute al fresco nella sabbia del bagnasciuga, sotto
rigoroso controllo visivo dei componenti della famiglia.
All’imbrunire
le cabine venivano illuminate con lampade e lampadine
colorate, mentre il porto diventava una fantasmagorica
giostra gremita di ogni tipo di imbarcazioni spesso
provviste di orchestrine.
Poco prima della mezzanotte, sugli scogli nei pressi
del canale Pigonati, venivano lanciati i fuochi d’artificio.
Un rito atteso da tutti e portato personalmente a compimento
dal direttore dello stabilimento Italo Mastrobiso con
la sua speciale pistola, tutt’oggi custodita dalla
figlia Irma. Era anche il momento per fare l’ultimo
tuffo in mare e concludere la giornata.
Le
trasgressioni
Sant’Apollinare - la spiaggia
all’avanguardia nello scenario salentino, anche
grazie alla presenza d’una clientela internazionale
- non poteva non fare proprie le mode in voga nei più
famosi lidi italiani ed esteri. In particolare, tra
gli anni ’50 e ’60, anche i gay brindisini,
vincendo il timore di mostrarsi in pubblico, cominciarono
a frequentare la spiaggia. La qualcosa, inutile dire,
provocò accese discussioni tra i fautori del
nuovo e il provincialismo dell’ambiente più
conservatore.
Lo stesso accadde
con la comparsa dei primi “due pezzi”. Durante
l’estate del 1951 (o del ’52) - racconta
Roberto Aiello - una signora settentrionale decise di
prendere la tintarella indossando uno dei primissimi
bichini che, nonostante fosse molto più castigato
rispetto ai costumi del momento, veniva considerato
un simbolo di trasgressione in quanto lasciava scoperto…
l'ombelico. Si racconta al proposito di un agente di
polizia che intimò alla signora un categorico
“si tolga subito quel due pezzi; non lo sa che
è vietato?”. E quella, senza scomporsi:
“quale dei due pezzi devo togliere?”.
Sembra che l’agente, visibilmente imbarazzato
dall’inattesa replica, decidesse di lasciare perdere,
andando via senza aggiungere parola.
Inoltre la ventata
di modernità portata a Brindisi dai giovani saccopelisti
che, chitarra a tracolla, andavano a praticare il nudo
sulle spiagge greche lasciò strascichi anche
da queste parti. Si racconta di una notte in cui la
luna pitturava d’argento una Sant’Apollinare
sonnecchiante. In quelle condizioni di luce non fu difficile
a Nicola il guardiano individuare un
buon numero di agili figure: due, sei, dieci, dodici…
tra ragazzi e ragazze, giunti via mare in barca. E con
l’aiuto della luna Nicola riuscì anche
a identificarne alcuni: rampolli di famiglie che avevano
la cabina proprio lì. Che stava succedendo?,
si chiese.
Dalla barca tirata sveltamente a riva i ragazzi, dopo
essere scomparsi per qualche minuto nelle cabine “buone”
(quelle fronte mare), ne uscirono vocianti e poi, levando
alla notte un unico grande grido, cominciarono la corsa
verso il mare. Un innocente bagno di mezzanotte, pensò
Nicola. Poi guardò meglio e fu colpito dalla
visione del nudo integrale dei corpi efebici dei giovani
e delle acerbe ma sensuali fattezze delle ragazze. Fu
un lampo. Un istante dopo la spuma del mare ricoprì
quel groviglio di corpi festanti. Sembrava una danza
irrituale che rinnovava, a distanza di qualche millennio,
e nello stesso luogo, quelle che dovevano svolgersi
in onore del dio Apollo. Ma Nicola non arrivò
a fare questo collegamento. Arrivò, invece, al
telefono a gettoni e avvertì il padre di uno
dei giovanotti. Qui la privacy impedisce d’andare
oltre nel racconto. A meno che qualcuno dei protagonisti
dell’episodio, oggi affermati professionisti…
in pensione, non voglia sollevare il velo sull’epilogo
di quella nottata…
Un giornale dell’epoca molto diffuso dedicò
la prima pagina a quell’evento corredandolo di
un bellissimo disegno opera del grafico che in quel
periodo immortalava gli avvenimenti nazionali più
rilevanti.
Fotogallery,
La Spiaggia - la spiaggia- clicca per ingrandire |
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Gli
amori
Nel 1964 Fred Bongusto lanciava Una
rotonda sul mare e a Sant’Apollinare, ancora
da prima, c’era il mare, la rotonda e il disco
che suonava… No, sicuramente l’ispirazione
per quella canzone di successo non è venuta da
qui, ma gl’ingredienti per innamorarsi c’erano
tutti. “Quanti amori sono nati a Sant'Apollinare
- ricorda ancora Domenico Faraselli - quanta allegria
ha donato a tutti noi quella che io continuo a considerare
la più bella spiaggia del mondo”.
Gruppo di amici sul terrazzo
della rotonda
Né la rotonda
ha fatto differenza tra amori leciti e proibiti. Ha
tenuto conto solo dei sentimenti e delle passioni che
l’accoppiata sole-mare fa esplodere d’estate.
Lasciando da parte qualsiasi giudizio o, peggio, qualsiasi
condanna. E gli amanti che sceglievano questo lido perché
fuori dalla portata degli sguardi indiscreti (forse
anche un po’ invidiosi), sapevano di potere contare
su una discrezione che consentiva loro di cogliere gli
attimi di felicità cui sentivano d’avere
diritto. Sant’Apollinare costituiva per loro l’isola
felice nel vasto mare delle convenzioni parruccone.
Insomma, una specie d’isola di Wight degli anni
Settanta. Lo testimonia l’episodio in cui il guardiano
Nicola (sempre lui!) inibì l’accesso via
terra a quel marito che, messo sull’avviso da
una soffiata (ma oramai le voci erano diventate troppe
e insistenti…), era fermamente determinato a sorprendere
sul fatto la coppia fedifraga (probabilmente appartata
in una delle cabine).
Fotogallery:
Le persone - clicca per ingrandire |
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La fine
di un’epoca
E come terminò la mitica
età dell’oro, così avvenne per Sant’Apollinare.
Solo che, nel nostro caso, non fu Zeus a decretarne
la fine. A sacrificare il lido fu l’incalzante
processo d’industrializzazione della fine degli
anni Sessanta e il miraggio di chissà quali fortune
per la città di Brindisi. Le acque del porto
vennero inesorabilmente inquinate e la balneazione fu
alla fine inibita.
A settembre del 1973 la spiaggia chiuse definitivamente
i battenti.
Il Destino s’era compiuto, ma quello che ancora
oggi addolora è il modo in cui è stato
scritto. Infatti, oltre all’efferato delitto commesso,
non si è neppure provata l’umana pietas
di nascondere alla vista i resti vergognosi di quella
meraviglia che per i brindisini fu Santa
Pulinara…
A proposito, esiste nel codice una norma che punisce
chi uccide i sogni della gente? E, in questo caso, di
un’intera città?
Testo di Guido Giampietro
e Giovanni Membola
La spiaggia di Sant'Apollinare
- aprile 2010
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Nota degli Autori
Il presente lavoro è stato realizzato
grazie ad una serie di testimonianze raccolte
da coloro che hanno vissuto e frequentato per
anni la spiaggia di Sant'Apollinare. Un lavoro
avviato in collaborazione con la redazione del
magazine Ciclostyle e portato avanti con il contributo
di Gianfranco Perri, del gruppo Facebook dei "Brindisini
la mia gente" e di appassionati della storia
e delle tradizioni locali.
Pertanto si intende ringraziare i i sigg.ri Irma
Mastrobiso, Domenico Faraselli, Roberto Aiello,
Antonio Caputo, Roberto Di Campi, Romeo Tepore,
Ugo Imbriani, Damiano Guadalupi, Francesco Romanelli
e Pierluigi De Castro per le utili informazioni
fornite.
Sono graditi ulteriori contributi di ricordi,
immagini e informazioni di ogni genere.
Alcuni particolari, relativi alla spiaggia prima
del secondo conflitto mondiale, sono stati estratti
dal libro di Antonio Caputo Memorie brindisine
(‘Ncera na vota 3) del 2004.
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Documenti
correlati
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t'amori e sangu a Santa Pulinari" (di Lucia
Tramonte) |
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