LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
IL
VINO BRINDISINO IN EGITTO
Il
passante che, nella tumultuosa Cairo
degli inizi del secolo, percorsa la grande arteria della
Esbekia, avesse imboccato il vicoletto della Rue Dar
el Baghdad in direzione del bazar copto, avrebbe notato
al di sopra di un esercizio commerciale di apparenza
modesta un'insegna in italiano con due nomi che a noi
brindisini sarebbero suonati familiari: Di Giulio
e Pinto. Era questa, immortalata nella foto,
solo una delle rivendite di vino gestite da brindisini
in Egitto, principalmente al Cairo e ad Alessandria.
Interi ceppi familiari, dalla fine del secolo scorso
sino alla seconda guerra mondiale, si trapiantarono
là dove le opportunità commerciali lo
richiedevano: i Caiulo, gli Scivales,
i Libardo, i Falappone,
oltre ai già citati Di Giulio e Pinto. Oggi pretendere
di vendere vino agli arabi sarebbe per lo meno pretenzioso,
vista l'ondata di integralismo islamico vigente (il
Corano invita ad andarci piano con l'alcool), ma allora
l'Egitto faceva eccezione alla regola: in un paese sotto
protettorato europeo (inglese), abitato da numerosissime
colonia straniere (francesi, italiani, ebrei, greci,
ecc.), i vincoli religiosi erano molto allentati.
Del resto un'iniziativa in Egitto, per i commercianti
di vino brindisini, era solo un passo un po' più
lungo rispetto a Venezia o Trieste, dove il nostro vino
godeva di ampia e meritata diffusione.
In quei tempi il bacino del Mediterraneo era commercialmente
più omogeneo di oggi.
La comunità italiana al Cairo era ben individuabile:
aveva persino un proprio giornale, "Il Giornale
d'Oriente", ed era molto affiatata. I brindisini,
poi, pur in una città di due milioni di abitanti,
facevano gruppo a sé e ogni notizia che li riguardava
arrivava a Brindisi con puntualità.
Non passò, per esempio, inosservato un episodio
di cronaca nera che coinvolse un rampollo di una della
famiglie sopra citate, incriminato ingiustamente per
un traffico di eroina e suicidatosi per la vergogna
prima dell'inizio del processo. Quell'attività
al Cairo era floridissima, in un paese in cui gli stranieri,
in assenza di un'autorità locale degna di questo
nome, godevano della più ampia libertà,
e non solo di commercio.
I francesi e gli inglesi dirigevano imprese di notevoli
dimensioni, come la "Compagnie du gaz" o la
" Compagnie des Eaux", in cui gli italiani
figuravano come tecnici qualificati, quando non esercitavano
mestieri autonomi (es. gli scalpellini), oppure si dedicavano
al commercio all'ingrosso. I greci privilegiavano per
lo più il commercio al minuto di alimentari o
di abbigliamento, mentre le attività finanziarie
erano in mano agli ebrei.
La moneta corrente era la sterlina d'oro; con questa
i brindisini venivano pagati dai loro clienti e con
la stessa pagavano i loro fornitori all'estero senza
bisogno di procurarsi altra divisa.
Per pagare il vino importato in botti dalla ditta di
Vincenzo Guadalupi di Brindisi, quello
di Gragnano (molto apprezzato) o il Chianti in fiaschi
per la clientela europea, venivano rimesse le sterline
in oro a mezzo corriere, affidandole al primo brindisino
che doveva far ritorno in patria.
E'
evidente quindi che i pagamenti avvenivano non secondo
gli attuali usi commerciali, ma secondo le occasioni
o le possibilità, essendo la fiducia reciproca
la sola garanzia.
Questo "ciclo virtuoso" proseguì fino
al 1929. Con la crisi valutaria di quell'anno, seguita
dai provvedimenti autarchici del fascismo, non fu più
conveniente l'importazione di vino italiano che veniva
a costare il doppio. I nostri concittadini che operavano
al Cairo furono costretti ad approvvigionarsi altrove:
per esempio, i Falappone comprarono vino in Grecia o
addirittura in Palestina dalla famosa compagnia "
Rishon le Zion", trasformandosi così in
semplici intermediari.
La seconda guerra mondiale produsse il crollo di quest'attività:
gli inglesi internarono i civili italiani e confiscarono
tutte le loro attività. Finita la guerra, alcuni
brindisini rimpatriarono, altri rimasero, ma con minor
fortuna e ridimensionando comunque l'attività.
Per esempio la rivendita di Rue dar el Baghdad venne
chiusa e ne venne aperta una più piccola in Rue
tor Aaba el Men' Assra.
Sotto il regno di Farouk gli europei godevano ancora
di una certa libertà e di alcune facilitazioni.
Il colpo decisivo venne nel 1952 con la "rivolta
dei colonnelli", prima Neguib, poi Nasser.
Si trattò, per le grandi città egiziane,
Cairo ed Alessandria, fino ad allora europeizzate al
massimo, di una vera e propria "riconquista araba",
permeata di aspetti populistici e xenofobi.
Lo capì benissimo l'ultimo dei brindisini sopravvissuti
al Cairo, Antonio Falappone, che nel 1953 chiuse baracca
e fece ritorno definitivamente a Brindisi.
Per chiudere questo breve sguardo su una storia commerciale
quasi dimenticata, bisogna anche riferire un particolare
"hard".
La rivendita principale era al centro del quartiere
"a luci rosse" del Cairo. La contigua Rue
Esbekia pullulava di bordelli e vari luoghi di piacere,
dove l'amore non era certo praticato con la raffinatezza
che si può riscontrare nei racconti delle "Mille
e una notte". Lasciamo quindi immaginare quale
poteva essere la clientela abituale della rivendita
effigiata nella foto, almeno in certe ore del giorno
e della notte: i titolari dovettero vietare l'ingresso
alle donne arabe per evitare che le prostitute dei vicini
bordelli, penetrate all'interno con la scusa di farsi
un bicchiere, si esibissero nel loro migliore repertorio
per adescare i clienti.
Le risse fra "fellah" e "saidi"
avvinazzati, tradizionali rivali, erano all'ordine del
giorno, ma questo non preoccupava eccessivamente i nostri
concittadini.
Essi sapevano che, anche a spaccare loro una sedia in
testa o a sbatterli fuori a calci, non avrebbero corso
nessun rischio di natura penale.
Nell'Egitto di quel tempo era in uso il regime delle
"capitolazioni", per cui gli stranieri indiziati
di qualunque reato potevano essere giudicati solo dalle
autorità del proprio paese facenti capo ai rispettivi
consolati.
Testo di Pietro Gigante
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