LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
VIGNE,
VIGNETI E VENDEMMIA BRINDISINA
Breve viaggio nella tradizione millenaria della vitivinicoltura
brindisina
Brindisi e la sua
provincia, un territorio dove il vino è una parte
integrante della storia e della tradizione millenaria.
Le caratteristiche del terreno e del clima particolarmente
favorevoli hanno permesso di conservare per millenni
una importante, e per molti versi unica, memoria vitivinicola
che risalirebbe addirittura alla civiltà micenea.
Una coltura tramandata nei secoli come un’eredità
preziosa: con amore generazioni di contadini hanno conservato
e migliorato le tecniche di cura delle vigne, selezionando
e rendendo specifiche alcune varietà autoctone
divenute poi identificative dell’intero territorio,
come il Negroamaro, la Malvasia
nera e il Susumaniello. Quest’ultima
varietà di probabili origini dalmate, è
da sempre molto diffusa nella provincia di Brindisi,
dove il suo nome richiama il termine “somarello”,
vista l’elevata produttività della pianta
carica di grappoli “come un somaro”. L’uva
è stata utilizzata sino agli anni ’60 principalmente
come mosto di colorazione e per questo molto esportata
al nord. Con l’esaurirsi della domanda l’interesse
è decaduto, ma l’alta concentrazione degli
estratti delle bacche, e la buona acidità fissa,
hanno permesso la sua riscoperta come vitigno da cui
ottenere ottimi vini rossi, sia in purezza che in abbinamento
con altre uve.
Uve di Malvadsia Nera di Brindisi
I romani, forse più
degli altri, hanno lasciato importanti testimonianze
che confermano la qualità e l’importanza
del vino brindisino, ricercato e apprezzato in gran
parte dell’impero, dove veniva distribuito e commercializzato,
via mare nell’intero bacino del Mediterraneo,
utilizzando le anfore costruite nelle
fornaci di Apani, Marmorelle, Giancola
e La Rosa. Grazie al ritrovamento di alcuni di questi
contenitori “firmati” dai fabbricanti brindisini
(bolli impressi sulle anse delle anfore prima della
cottura), è stato possibile confermare la presenza
di vino proveniente da Brindisi anche nelle cantine
di Erode il Grande, in Palestina.
Proprio i romani, ben duemila anni fa, sono stati i
primi ad attuare la cosiddetta filiera vitivinicola,
ovvero la coltivazione delle uve, la lavorazione del
raccolto, la trasformazione del mosto e la commercializzazione
del vino presso la stessa azienda, un concetto moderno
che oggi tanto si auspica per rilanciare le produzioni
agricole locali e che da qualche anno alcune aziende
private locali mettono in atto con successo. Plinio
racconta del modo particolare di sostenere le viti,
una tecnica di coltivazione chiamata “funetum”:
s’intrecciavano i tralci ancora teneri tra vite
e vite con raffia o con funicelle, in modo da formare
un arco, così da sostenersi a vicenda.
Alcuni studiosi affermano che i romani allungavano il
vino con l'acqua, calda o fredda, subito prima di berlo,
probabilmente perché all'epoca la bevanda aveva
una gradazione alcolica ed una consistenza molto più
alta dell’attuale, si parla di una sorta di mosto
alcolico dal sapore aspro e resinoso. Il rapporto di
diluizione in acqua era deciso da un "arbiter
bibendi", le proporzioni potevano essere anche
di sette parti di acqua ed una di vino, ciò può
rendere l’idea del tipo di bevanda che talvolta
veniva anche addolcita con l’aggiunta di miele.
Inoltre già all’epoca non mancavano le
manipolazioni con l'aggiunta di ingredienti utili -
si credeva - ad una migliore conservazione del vino,
o anche per renderlo più profumato ed aromatico
con l'aggiunta di piante odorose come rosmarino, finocchio
e anice, ma anche con chiodi di garofano, zenzero e
cannella.
Vendemmia a Brindisi negli anni
'60
Nel medioevo si sviluppò
la cosiddetta “viticoltura ecclesiastica",
dove il vino, oltre ad essere consentito alle comunità
religiose e offerto ai pellegrini, era indispensabile
per la celebrazione delle funzioni religiose e per la
comunione dei fedeli. Si è assistito all’incremento
delle proprietà agricole legate alle autorità
ecclesiastiche ed ai monasteri, divenendo importanti
centri di coltivazione della vite.
Un radicale cambiamento delle tecniche di coltivazione
si è avuto nella seconda metà dell’800,
quando la Fillossera, un insetto fitofago altamente
dannoso che si nutriva delle radici della pianta, provocò
in breve tempo la distruzione di interi vigneti in tutto
il continente europeo. Da qual momento fu necessario
rinnovare la viticoltura utilizzando portinnesti resistenti,
ovvero su una pianta americana - il cosiddetto “piede”,
dove l’apparato radicale era resistente all’insetto
- veniva fatta attecchire una cultivar europea con la
tecnica dell’innesto. Così la viticoltura
conosciuta sin dai tempi antichi scompariva per sempre
lasciando spazio ad una nuova forma di coltivazione.
Vendemmia a Brindisi, carrretto
con uva raccolta da scaricare allo stabilimento vinicolo
Il vigneto
per diverse generazioni è stato tramandato come
una sorta di corredo genetico di una famiglia, ovvero
dalle piante più vecchie venivano presi i tralci
da utilizzare nell’innesto di un nuovo vigneto
dello stesso nucleo familiare.
Settembre era l’atteso periodo della vendemmia,
una vera e propria festa che richiamava tanta gente,
un rituale dal forte significato sociale nel quale uomini
e donne si riunivano per lo stesso obiettivo. Intere
famiglie impegnate con passione nei campi sin dal sorgere
del sole, tra canti, “cunti” e programmi
per il futuro, era un modo gioioso per condividere il
risultato di una intera stagione fatta di sacrifici
e di speranze. Nelle strade di campagna e in città
circolavano molti carri colmi di uva diretti agli stabilimenti
vinicoli, dove l’odore del mosto segnava le lunghe
ed impegnative giornate lavorative di tanti brindisini.
La bella festa dell’uva
de del vino che si svolgeva a Brindisi negli anni Settanta
L’ultima grande
trasformazione si è vissuta in quest’ultimo
ventennio. Un mercato poco remunerativo e gli incentivi
comunitari per l’estirpazione hanno drasticamente
ridotto le superfici coltivate, troppo spesso trasformate
in orrendi campi fotovoltaici, e i pochi vigneti rimasti
o quelli reimpiantati hanno subito una rapida trasformazione
della forma d’allevamento, passando dal tradizionale
“alberello” all’attuale “spalliera”,
per essere idonei alla completa meccanizzazione necessaria
sia per mancanza di manodopera che per contenere gli
alti costi di produzione.
L’alberello è il frutto della saggezza
contadina che nel tempo ha messo a punto una forma di
coltivazione ideale per un’area tendenzialmente
a clima siccitoso, una forma di allevamento destinata
inesorabilmente a scomparire (si è valutata una
perdita di oltre il 90%), nonostante proclami di associazioni
e le richieste di intervento di tutela per questo tradizionale
sistema di coltivazione.
Ma agli ultimi viticoltori non si può chiedere
di conservare una tradizione a proprie spese, nonostante
siano consapevoli che l’estirpazione dei vecchi
vigneti rappresenta anche una perdita di una importante
identità agricola, culturale e paesaggistica
dell’intero territorio.
Raccolta meccanizzata delle uve
in un vigneto a spalliera
Testo di Giovanni Membola
per Il 7 Magazine (n.65 del 21/9/2018)
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