LE STORIE DELLA NOSTRA
STORIA
I
PALMENTI, LE ANTICHE STRUTTURE PER LA PIGIATURA DELLE
UVE
I manufatti tipici della tradizione
enotecnica preindustriale furono sostituiti dagli stabilimenti
vinicoli alla fine dell800. Oggi sono ruderi pronti
a crollare: solo uno si è salvato
Settembre, nella
cultura vitivinicola tradizionale vuol dire vendemmia.
È il mese cruciale per la raccolta delle uve
dopo quasi un anno di sacrifici e tanto duro lavoro,
un periodo sicuramente emozionante che corona tutti
gli sforzi fatti per ottenere un prodotto di qualità.
L'attività agricola nel corso dell'ultimo ventennio
ha subito notevoli trasformazioni, l'avvento delle vendemmiatrici
semoventi ha quasi del tutto sostituito il lavoro dell'uomo,
ma sono soprattutto le tecniche di trasformazione dell'uva
ad essersi adeguate, da tempo, ai notevoli rinnovamenti
imposti dalle moderne tecnologie. Tutto ciò ha
esaltato le caratteristiche dei nostri vitigni con la
produzione di vini eccellenti, causando però,
inevitabilmente, la perdita progressiva di antichi mestieri
e tradizioni popolari, e la scomparsa dei cosiddetti
"Palmenti", le ataviche costruzioni rurali
utilizzate sin dall'età protostorica per la pigiatura
delle uve appena vendemmiate e la fermentazione del
mosto.
Questi manufatti tipici della tradizione enotecnica
preindustriale erano particolarmente attivi tra il XVI
e il XIX secolo prima di far posto ai più moderni
stabilimenti enologici industriali; erano strutture
molto semplici, realizzate in pietra calcarea locale
nell'area suburbana della città, assimilabili
a piccole case coloniche con uno o più vani coperti
da volte a botte o a stella. All'interno vi era una
la vasca di pigiatura dal piano leggermente inclinato,
di forma quadrata con lato generalmente lungo tre metri,
lo spazio era delimitato da un muretto alto quasi un
metro, collegato per mezzo di un foro alla cisterna
di fermentazione disposta a una quota inferiore. Qui
si lavorava l'uva raccolta in grosse ceste e trasportata
a spalla dai "cufunatori", scaricata poi dai
carri trainati da cavalli direttamente nelle vasche
di pigiatura. La macinazione avveniva sotto al calpestio
frenetico dei piedi nudi ("stompatura") dei
palmentari, che per non scivolare e dare maggiore forza
all'azione, di solito impugnavano una fune che passava
attraverso anelli fissati sulla volta del palmento.
È una tecnica molto antica, tramandata per millenni,
come testimoniato in diverse raffigurazioni risalenti
all'epoca romana ed egizia, un sistema di spremitura
ancor'oggi considerato dagli esperti come il più
razionale per ottenere un vino di qualità superiore:
la leggera compressione evita la rottura degli acini
acerbi, dei vinaccioli (semi) e dei raspi che altrimenti
rilascerebbero quantità eccessive di tannini,
in questo modo si estrae un mosto con poca feccia ideale
a trasformarsi in vino di particolare morbidezza. Il
movimento ritmico e veloce dei palmentari veniva spesso
accompagnato da canti popolari necessari ad alleviare
le lunghe e faticose giornate di lavoro. Completata
la pigiatura si toglievano i raspi e si lasciava fermentare
il mosto, insieme alle bucce, per almeno un paio di
giorni, durante queste ore si muoveva la "pasta"
con i piedi o con delle pertiche in legno ('nfullatura)
al fine di migliorare l'estrazione delle sostanze coloranti
e dei polifenoli, favorendo anche l'ossigenazione dei
lieviti.
La pigiatura dell'uva in una
antica pittura egiziana (1552 1306 a.C.)
La pigiatura dell'uva nel mosaico
del mausoleo di S.Costanza a Roma
Una volta che il mosto
aveva raggiunto la colorazione desiderata, veniva fatto
defluire ("sfociri") nelle vasche di raccolta
("palacci") attraverso un idoneo foro con
canalina, dove si completava la fermentazione. Le pareti
di queste cisterne erano rivestite da intonaco impermeabile
che, con l'approssimarsi del periodo della vendemmia,
venivano pulite e testate nella tenuta. Le vinacce (bucce,
raspi e gli altri residui della spremitura) si raccoglievano
e si ammassavano per essere poi sottoposte ad una ulteriore
ed energica spremitura con il torchio, solitamente presente
sul muro perimetrale del palmento. Il succo meno corposo
ottenuto da questa seconda spremitura dava origine al
"vinello", un prodotto di qualità inferiore
che in epoca romana poteva essere bevuto dalle donne
e dagli schivi, ai quali era interdetto l'uso del vino
puro. L'ultima fase prevedeva il travaso del mosto,
in parte fermentato, in botti di rovere o di castagno,
e il suo trasferimento in cantina dove veniva fatto
maturare; il vino poteva essere conservato anche in
grossi recipienti di ceramica, le cosiddette "vozze",
simili alle anfore e i "dolia" utilizzati
nell'antichità, un materiale scelto per le sue
capacità di regolazione termica che evita l'apporto
di aromi troppo marcati presenti nel legno.
La pigiatura delle uve nel palmento
(disegno A. Mingolla)
Con l'avvento delle
moderne tecnologie, i palmenti lasciarono il posto agli
stabilimenti vinicoli, gran parte di questi singolari
fabbricati furono perciò convertiti in abitazioni
e stalle, in particolare durante l'ultimo conflitto
mondiale, quando molte famiglie brindisine fuggirono
dal centro abitato per stabilirsi in campagna al riparo
dai bombardamenti aerei. Le antiche strutture rimaste
ancora in piedi, oggi versano in pessimo stato di conservazione,
talvolta occultati dalla vegetazione spontanea dopo
aver subito anche la depredazione dei principali elementi
in pietra.
Una indagine sulle caratteristiche architettoniche,
costruttive e le particolarità strutturali dei
manufatti rurali legati all'antica tradizione rurale
ed enotecnica brindisina, è stata pubblicata
nel 2020 nell'Archivio Storico Brindisino (a cura della
sezione di Brindisi della Società di Storia Patria
per la Puglia), lo studio ha raccolto e catalogato gli
ultimi palmenti presenti nell'agro del capoluogo, tutti
risalenti probabilmente alla prima metà dell'Ottocento,
sviluppati in concomitanza con la grande diffusione
del vigneto e presumibilmente modificati ricalcando
schemi tipologici e soluzioni costruttive già
in uso nei secoli precedenti. La ricerca, durata ben
sette anni, è stata condotta grazie alla cortesia
e la disponibilità di alcuni anziani agricoltori
che hanno mantenuto ancora lucido il ricordo della presenza
di palmenti nelle campagne brindisine, gli ultimi testimoni
degli antichi processi di lavorazione delle uve. Alcuni
dei manufatti rurali rinvenuti si trovano persino censiti
nel Catasto Provvisorio del regno, detto anche "Catasto
Murattiano", redatto nel 1815 durante la catalogazione
degli edifici rurali e oggi conservato presso l'Archivio
di Stato di Brindisi, dove sono registrati ben centotrenta
opifici, testimonianza della diffusione in quest'area
della cultura della vite nei secoli passati e dell'importanza
che la produzione del vino aveva nell'economia locale.
I palmenti inoltre erano spesso associati ai trappeti,
analoghe strutture utilizzate per la spremitura delle
olive che però hanno avuto un maggiore riguardo
nella tutela storica.
Esterno del palmento di contrada
Piccoli (prop. Valentini), dalla caratteristica forma
a T
Uno degli aspetti
più interessanti dell'indagine è il riscontro,
piuttosto ricorrente nell'agro di Brindisi, di un'evidente
e singolare caratteristica costruttiva riguardante la
disposizione e la dimensione delle vasche collettrici
del mosto, che danno all'edificio la caratteristica
forma a T, con il lato anteriore dello stabile sporgente
da entrambi i lati rispetto al resto della costruzione,
come mostrato nella ricostruzione grafica.
L'unica antica struttura recuperata, valorizzata e riadattata
ad uso culturale è l'Antico Palmento di via Sabin,
(all'inizio della zona industriale), lo si deve esclusivamente
all'encomiabile iniziativa del proprietario Giuseppe
Siragusa, che ha fortemente creduto nella salvaguardia
dell'impianto produttivo e alla sua riqualificazione.
Un investimento che visto la trasformazione di un rudere
in un edificio storico legato alla civiltà contadina
e alle tradizioni popolari del territorio, messo a disposizione
per eventi musicali ed enogastronomici anche di carattere
didattico, utili anche alla conservazione e alla valorizzazione
delle antiche pratiche enologiche.
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.216 del 17/9/2021
Fotogallery (clicca per ingrandire)
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Bibliografia:
Giovanni Membola. I palmenti di Brindisi. Indagini
e ipotesi su caratteristiche architettoniche, costruttive
e particolarità strutturali dei manufatti rurali
legati alla tradizione enotecnica brindisina in
Archivio Storico Brindisino, 2020
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