LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
LA VENDEMMIA,
UN LEGAME SECOLARE CON LA NATURA
Lepilogo della stagione viticola ha sempre rappresentato
un momento magico e di festa condiviso con grande spirito
sociale, oggi quasi del tutto soppiantato dal progresso
e dalla meccanizzazione
È tempo di
vendemmia. In queste settimane, con l'atto sublime della
raccolta dell'uva matura e la sua conseguente trasformazione
in vino, si completa una lunga stagione di lavoro, il
momento topico per chi fa della viticoltura la propria
professione, atteso con ansia e al tempo stesso con
eccitazione. Una volta questa speciale ritualità
pagana era particolarmente sentita soprattutto nella
nostra città, tradizionalmente enoica, era un
momento di festa e di grande spirito sociale: le comunità
contadine condividevano i ritmi lenti del duro lavoro,
affrontavano la fatica e la superavano con inaudita
allegria tra canti corali, racconti e tante risate.
Una vera e propria celebrazione del legame tra uomo
e natura trasmessa integra sin dall'antichità,
quando si festeggiava con banchetti in onore di Bacco,
giunta sino a noi con la stessa intensità.
Immagine della vendemmi ai primi
del '900
Il termine vendemmia
è latino e deriva dalla combinazione di due parole,
vinum (vino) e demere (levare), letteralmente
"raccogliere il vino", una volta che il frutto
è maturo. La verifica della maturazione avviene
ancora oggi attraverso l'analisi visiva, sensoriale
e gustativa dell'uva, ma principalmente con il riscontro
del grado zuccherino nel mosto, da fare direttamente
in campo: si adopera un semplice mostimetro, un particolare
densimetro basato sul principio di Archimede, utile
a misurare la percentuale in peso degli zuccheri contenuti
nel mosto ben filtrato. Da questo valore si può
inoltre calcolare, attraverso un coefficiente, quale
sarà il grado alcolemico del vino che si otterrà
con la fermentazione. Esistono strumenti più
rapidi e sofisticati, ma i mostimetri tradizionali continuano
a rimanere quelli più affidabili. Per poter procedere
alla raccolta delle uve nere era necessario raggiungere
un valore di almeno 18 gradi zuccherini, corrispondenti
a circa 12 gradi alcolici, ma di solito si superavano
anche i venti.
Taglio dei grappoli di uva durante
la vendemmia (ph. Domenico Summa)
Arrivato il momento,
si organizzavano le "squadre" composte da
un certo numero di vendemmiatori, armati di guanti,
apposite forbici e un secchio capiente, solitamente
a recidere i grappoli erano donne di ogni età
(talvolta nonne, madri e figlie insieme), ma anche studenti
volenterosi di guadagnarsi la "giornata".
Piazza Cairoli era il luogo dell'ingaggio, di questi
tempi era sempre particolarmente affollata di contadini,
mediatori e di chi si offriva per questo lavoro. Ogni
quattro vendemmiatori ci doveva essere un "aza-tineddi",
colui che in mezzo ai filari del vigneto (la "rasula")
doveva prendere e svuotare i secchi di uva raccolta
in appositi tini. Questi contenitori un tempo erano
fatti con doghe di legno, quindi pesanti già
da vuoti, furono poi sostituiti da mastelli in plastica
dura, decisamente più leggeri ma anche fragili.
L'aza-tineddi doveva essere bravo a gestire i
"suoi" quattro vendemmiatori, in maniera che
nessuno rimanesse indietro o dimenticasse di raccogliere
anche un solo grappolo, inoltre doveva saper pressare
con decisione il raccolto nella tinozza. Questa, una
volta piena (pesava circa mezzo quintale) veniva sollevata
con decisione sulla spalla del "cufunatore",
ovvero colui che aveva il compito di trasportarla e
svuotarla nelle botti o nei vasconi di raccolta. L'operazione,
all'apparenza semplice, era invece un mix di forza e
coordinamento tra i due, la "tinedda"
veniva poggiata dolcemente sul "muskale"
(un piccolo cuscino tenuto sulla parte alta del dorso
e fermato con una fascia sulla fronte) o, per i più
temerari, direttamente sul muscolo della spalla. Non
doveva cadere neanche un acino per terra, anche su questo
si misurava l'abilità di entrambi. Se l'uva era
stata venduta a compratori venuti di altre regioni,
di solito si raccoglieva in cassette, i grappoli ricchi
di acini dolci e succosi, dal colore intenso, in questo
caso non dovevano essere schiacciati, ma si doveva garantirne
la loro integrità.
La vendemmia, il cufunatore
svuta la tinedda di uva nella vasca del camion
(ph. Domenico Summa)
Il "cufunatore",
un uomo dotato non solo di forza ma soprattutto di agilità,
equilibrio e grande resistenza, dopo aver attraversato
il filare di viti (a volte in pendenza), di solito saliva
su una scaletta e scaricava il contenuto nelle botti
disposte sul carro trainato dal cavallo, poi sostituiti
dai vasconi portati da trattrici o camion, protetti
da un apposito telo impermeabile. A fine giornata il
"cufunatore" si vantava di aver trasportato
a spalla anche 50-80 quintali di uva, il giorno dopo
si ricominciava e si andava avanti per un mese, o anche
più. Se capitava una giornata di lavoro successiva
ad una abbondante pioggia, il rischio di scivolare nel
terreno fangoso era molto alto, pertanto l'uva veniva
"uscita" dal vigneto con una slitta trascinata
dal cavallo, sul quale si poggiavano le "tinedde"
stracolme di grappoli pressati, al "cufunatore"
il compito poi di svuotarle nei vasconi.
La vendemmia negli anni '60,
il cufunatore con la tinedda di legno
Si iniziava all'alba,
nell'aria pungente del mattino ognuno si "prendeva"
il proprio filare, bardati e coperti per difendersi
dall'umidità, per poi man mano togliersi i vari
strati di indumenti quando il caldo cominciava a farsi
sentire. Non si pensava ad abbinare colori o a curare
l'aspetto, l'importante era stare comodi e proteggersi
dal fresco, della rugiada e dalle zanzare. Prima di
iniziare ognuno si faceva il segno della croce e solitamente
la donna più anziana dava il via con una frase
propiziatoria. Tutti erano uniti dal sincero sentimento
di letizia legato alla buona riuscita della vendemmia,
con un coinvolgente e affascinante spirito festoso,
l'occasione tanto attesa che riuniva intere famiglie
di contadini. Quando qualcuno intonava un canto o uno
stornello, gli altri seguivano in coro, senza mai smettere
di lavorare, era un modo per diffondere allegria. Si
faceva a gara a chi riempiva più rapidamente
le ceste e poi, a metà giornata, la sosta per
una breve merenda, seduti all'ombra delle vigne o di
qualche albero. Ancora più indietro nel tempo
c'erano anche i figli a dare una mano, i più
piccoli venivano delegati a raccogliere gli acini caduti
sul terreno, perché era ritenuto un vero sacrilegio
buttare anche una minima parte di un prodotto così
prezioso.
La vendemmia del Susumaniello
allevato su alberello pugliese di (2022)
L'intero raccolto
sino alla fine dell'800 veniva portato e lavorato al
palmento, successivamente negli stabilimenti vinicoli
e quindi nelle cantine di trasformazione, dove diventavano
vini forti e ben strutturati di Negroamaro, Primitivo,
Susumaniello e Malvasia nera; ovunque si assaporava
quell'intenso odore di mosto.
Oggi questa tradizione lavorativa è diventata
assai rara, la raccolta manuale, per una serie di ragioni,
non può essere più praticata, innanzitutto
per la scarsità di persone disposte a esercitare
questo mestiere (già negli anni Settanta le squadre
delle vendemmiatrici venivano ingaggiate quasi esclusivamente
nei paesi della provincia), poi l'arrivo delle macchine
per la raccolta meccanica a scuotimento ha permesso
un notevole risparmio di tempo e quindi di denaro, un
aspetto determinante per chi vive di questo settore,
da troppi decenni in crisi. Ma se il progresso ha ridotto
di molto la fatica del contadino, ha però determinato
la scomparsa non solo di un affasciante rito tradizionale
e celebrativo, dal grande valore storico e sociale,
ma anche del sistema di allevamento del vigneto tipico
della nostra zona, il cosiddetto "alberello pugliese",
non adatto alla raccolta meccanizzata.
Di questi bei ricordi della memoria contadina resta
la fierezza di ciò che si è vissuto e
amato, tocca a noi salvarla.
Raccolta meccanica con vendemmiatrice
semovente
Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.267 del 16/9/2022
La vendemmia di oggi e di ieri
(clicca per ingrandire)
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